Cerca nel blog

sabato 27 dicembre 2008

Il capitale si salvera?

L'umanità è arrivata al 2008 dell'era cristiana, e già questa di per se è una sorprendente notizia, perché nel 2008 c'è ancora il cristianesimo, ma soprattutto perché c'è ancora l'umanità! C'è arrivata sulle basi di un sistema economico matematicamente inconsistente ed eticamente orripilante. Questo diabolico marchingegno, chiamato capitalismo, propone come strumento economico d'avanguardia la vendita delle miserie umane sotto la forma talmente sgradevole che in parechie lingue non ha un nome, in Italia si usa un inglesismo: subprime. La struttura del subprime è a grossa catena di Sant Antonio, vediamone assieme i principi di funzionamento. Una banca presta soldi ad una famiglia che non potrà mai restituirli per l'acquisto di una casa, la banca getta nel tritacarne finanziario il debito e lo trasforma in strumenti azionari, venduti ad una famiglia terza che investe denaro su un buco. Tutti contenti: una famiglia ha una casa, una famiglia ha soldi investiti (che rendono) e la banca ha chiuso il bilancio in pareggio senza fare alcunchè, guadagnando però per anni sulle percentuali del pacchetto azionario e sugli interessi della famiglia mutuataria. Tutto ok? In periodo di crescita si, in periodo di crisi, ed ecco la parola magica, accade invece ciò che un potente colpo del rasoio di Occam poteva già dire alle sagge menti molto prima. La prima famiglia non riesce a pagare il mutuo a causa della mancanza di lavoro, dell'aumento dei prezzi o qualsivoglia altro motivo, la banca espropria la casa gettando la stessa sulla strada, si scopre così che il pacchetto azionario venduto non è altro che un buco, le azioni perdono valore fino ad arrivare a zero. Risultato? Una famiglia in strada, una sul lastrico e la banca senza liquidi con in mano una proprietà svalutata che non potrà mai rivendere. La crisi della finanza si riflette sulla cosiddetta economia reale, quella del pane, del latte e della benzina per intenderci, generando un vortice di dissesto planetario. Non si produce, non si vende, non si compra. Le monete del globo, sono ridotte a carta straccia, si abbassano i tassi di interesse per tappare con sughero un economia ed un modello finanziario preso a cannonate. Le banche, povere loro, rischiano il fallimento pur avendo usurato le genti e pur essendo esse stesse fautrici della propria distruzione. Il mondo ha chiuso i battenti. Le banche corrono ai ripari piangendo come la pietà Rondanini, chiedono conforto agli stati che subito soccorrono le muse straziate, perché la macchina capitale non può fermarsi. Fermiamoci un attimo sull'ultima frase, ripetiamola aggiungendoci un punto interrogativo: perché la macchina capitalismo non può fermarsi? Qual è il motivo per cui un economia globale deve sempre crescere nemmeno fosse l'entropia dell'universo? Perché ci preoccupiamo o meglio, perché ci fanno preoccupare quando sentiamo il famoso termine "crescita zero"? Che problema ci sarebbe se la crescita mondiale restasse invariata per 50 anni? Ebbene nessuno. Nessuno perlomeno in questo sistema, nessuno perché i guadagni in plus andrebbero sempre nelle solite mani, in quel 10% di popoli che consumano il 90% delle risorse, e non nelle tasche di chi tasche non ha, la torta la mangia chi già sfonda le bilance. Esiste una soluzione a ciò senza passare attraverso i regimi della storia e le idolatrie ideologiche che hanno insanguinato il 900? La mia risposta è si, e ve la spiegherò nella prossima storia.

Autore: wirepullers

venerdì 26 dicembre 2008

Usa-Russia: un futuro accidentato

Tra voglia di dialogo e prove di scontro

Dopo la vittoria di Obama i due giganti si guardano, si confrontano, indecisi se collaborare o scontrarsi. L'allargamento della Nato, la politica energetica e la crisi economica.

“La nuova amministrazione USA farà bene a non dare per scontato neppure l’obiettivo di ‘cordiali relazioni’ nei rapporti con la Russia”. Questo il messaggio, neanche tanto velato, che il presidente russo Medvedev e il primo ministro Putin hanno fatto pervenire a Washington subito dopo le elezioni americane del 4 novembre, mentre quasi tutto il mondo salutava con slancio l’elezione di Barack Obama a 44° presidente degli Stati Uniti.

Molti i motivi di questo atteggiamento.


La prosecuzione dello “spot pubblicitario” ad uso dell’opinione pubblica interna, utile a nutrire, sotto i colpi di una rampante crisi economica che ne ha nuovamente messo a nudo gli irrisolti problemi strutturali, l’illusione di una Russia forte. L’esperienza storica, la stessa che ha abituato il Cremlino a sviluppare una sorta di allergia agli ingredienti “idealistici” di cui è normalmente condita la politica estera delle amministrazioni democratiche rispetto a quella, più pragmatica, di ogni amministrazione repubblicana.

Ma soprattutto lo stato dei rapporti attuali sui quali incidono più profondamente tutti quegli avvenimenti che hanno ridotto in frantumi la speranza che la “partnership anti terroristica”, avviata alla fine del 2001, potesse favorire una collaborazione a più ampio spettro tra i due ex-avversari. Una spirale di azioni e dichiarazioni che - dall’allargamento della NATO ad Est al piano di difesa missilistica (in senso anti-iraniano, secondo le spiegazioni di Washington) dislocato a ridosso delle frontiere russe e alla guerra georgiana dell’agosto scorso - ha fatto parlare di ritorno ad un clima “da guerra fredda” nelle relazioni tra i due paesi.

Per quanto la necessità di dialogare con la Russia resti alta nella lista delle priorità della foreign policy di Washington, almeno a giudicare dalle dichiarazioni di molti tra gli esponenti politici che avranno voce in capitolo nella prossima amministrazione, pochi sono i dubbi sul fatto che l'America continui a rappresentare lo sfondo di riferimento di ogni considerazione fatta dai russi in tema di politica estera, ben più di quanto Mosca lo sia per gli americani. La nuova strategia di sicurezza nazionale che sta prendendo forma e che si riflette nella composizione della squadra di governo di Obama ed il fatto che in Russia la politica estera sia sempre di più il perno attorno al quale ruota la sopravvivenza del regime “a sovranita’ democratica” di Putin, saranno le due forze di fondo, di per sè in buona parte confliggenti, che potrebbero rendere ancora più problematico il dialogo.

Gli USA hanno bisogno della Russia non meno che della Cina per limitare l’erosione della loro leadership mondiale, a partire dal cambiamento climatico e dalle sfide energetica ed alimentare.

C’è chi consiglia pertanto proprio agli Stati Uniti di riaprire il dialogo; da un lato mettendo in conto che poco si potrà fare per smorzare l'ambizione di Mosca ad una propria sfera di influenza "nell'estero vicino", e dall'altro rinviando, in questa fase, ogni ulteriore accelerazione dell’accesso di Georgia ed Ucraina nella Nato (decisione posta di fatto in un limbo dalla riunione dei ministri degli esteri dell'Alleanza svoltasi recentemente a Bruxelles anche in attesa della nuova amministrazione USA) e del dispiegamento del “piano di difesa missilistica” in Europa.

Su questi due punti la futura amministrazione appare avere messo già a fuoco la necessità di un approccio più ragionato rispetto a quello seguito da Bush. Difficile, del resto, far entrare in un’alleanza come la NATO paesi con rilevanti problemi di frontiera ancora irrisolti, così come è da rivedere la significatività e l’efficacia del sistema di difesa missilistica progettato dall'amministrazione uscente.

Anche i rapporti energetici tra Europa e Russia ostacolano la realizzazione di un fronte occidentale compatto nei confronti di Mosca.

La caduta dei prezzi delle materie prime, unendosi alla crisi economica, renderà la Russia più instabile e più propensa a fare leva su una politica estera crescentemente “assertiva”, non fosse altro che per tenere alto il consenso interno attorno ad un disegno secondo il quale Putin aveva promesso, entro il 2020, l’arrivo della Russia al più volte mancato “radioso avvenire”.

La crisi economica globale sembra aver spuntato, inoltre, le possibili minacce del tentativo russo di intervento in America Latina. Una mossa da alcuni segnalata come una risposta di Mosca alle pressioni alle frontiere praticate dagli occidentali. In un ambito geopolitico che per Washington è sempre più difficile considerare semplicemente “il cortile di casa” e dove le preoccupazioni sono semmai rivolte al ben più reale e preoccupante intervento della Cina, entrata a far parte un mese fa della Banca Inter-Americana di Sviluppo.


Autore: Giovanni Mafodda
Fonte: www.limesonline.it

domenica 21 dicembre 2008

DA GRANDE VORREI FARE.... IL MANAGER

La crisi economica durerà almeno due anni dicono gli istituti più autorevoli, eppure tra i grandi manager italiani, uno solo, Alessandro Profumo, il più pagato del 2007, ha detto, quasi fosse una concessione, che nel 2008 non avrà il bonus. Forse una rinuncia dice. Un bonus che è stato di sei milioni di euro nel 2007, ma oltre a questo, la sua paga base è di oltre tre milioni di euro, perciò anche senza bonus, Alessandro Profumo, lo vedremo quando sarà pubblicato il bilancio, avrebbe comunque uno stipendio molto ricco, pari quasi alla media dei primi cento manager italiani che nel 2007 hanno guadagnato quattro milioni lordi a testa ciascuno. E' l'unico ad aver detto di non averne diritto per i pessimi risultati della banca nel 2007. Tutti gli altri sono rimasti in silenzio: da Corrado Passera ad di Intesa SanPaolo, che è un po' il grande concorrente di Profumo dell'Unicredit, ai vertici delle altre grandi banche e delle grandi società industriali, ad esempio la Pirelli, precipitata in borsa, il cui ad Negri è il più pagato con circa sei milioni all'anno. Quindi i picoli azionisti, il pubblico e i clienti di queste grandi società quotate in borsa che amministrano anche il risparmio privato, ma è il risparmio del parco buoi, ossia di coloro che non hanno voce, resta in attesa che anche i grandi capi si adeguino a quelli che sono risultati molto modesti.
Le loro retribuzioni, come abbiamo cercato di spiegare nel nostro libro "La paga dei padroni" edito da Chiarelettere, erano stellari ma non erano agganciate ai risultati, o meglio, non era indicato nei bilanci a quali risultati fossero correlate queste retribuzioni. Quello che noi abbiamo notato osservando la situazione degli ultimi anni è quella che lo stipendio del capo aumentava sempre, indipendentemente dai risultati, e infatti due studiosi americani, pochi anni fa, nel cuore del capitalismo mondial e, hanno scritto un libro che si chiama "Stipendio senza risultati". Quest'esempio vale anche da noi. La politica interviene certamente nelle società pubbliche controllate dallo Stato. Abbiamo visto il caso dell'Alitalia che pur essendo fallita, sta passando ad una cordata di imprenditori privati lasciando il buco del debito sulle spalle dei contribuenti e sugli azionisti che per metà sono privati. Eppure nel 2004, quando il governo era Berlusconi e ministro dell'economia era Tremonti chiamò come se fosse il miglior amministratore del mondo, disse Berlusconi, Giancarlo Cimoli delle Ferrovie dello Stato, gli fu garantito uno stipendio che è stato il più alto fra le compagnie aeree europee, 2,8 milioni lordi nel 2005, più del doppio della Lufthansa, più del triplo dell'Air France, ma l'Alitalia era ed è ancora la compagnia con le perdite più alte del mondo, non soltanto dell'Europa. Il resto delle società e del capitalismo italiano è amministrato da imprenditori privati con pochi capitali, ma che pretendono di avere i propri figli, o di essere sé stessi a guidarle con lauto stipendio, in questo caso la politica direi che è assente. Non c'entra sono decisioni di un sistema chiuso di relazioni, in cui con pochi capitali imprenditori, capitalisti e banchieri si danno un lauto stipendio anche quando gli utili che dovrebbero essere il sistema classico e più corretto di remunerazione del capitale, scarseggiano o sono troppo sottili.
Il problema per quanto interessa a noi, non è tanto misurare gli importi di queste retribuzioni, il nostro problema è, per esempio: Cesare Romiti ha avuto una liquidazione di 100 milioni di euro quando ha lasciato la Fiat dopo 25 anni di servizio. Cioè una liquidazione di quattro milioni di euro per ogni anno di lavoro. La domanda è: perché la Fiat ha dato tutti questi soldi di liquidazi one a Cesare Romiti? Ed ecco che andando a cercare la risposta a questa domanda, si trovano i difetti e le malattie del capitalismo italiano, ciò che oggi i lavoratori e i piccoli azionisti pagano con gli effetti pesantissimi della crisi economica. Quello che noi ci chiediamo, e che dovremmo vedere nel 2009, non è solo se riduranno i loro stipendi adeguandoli alla crisi, ma è vedere se manager e imprenditori, che al loro fianco conducono le aziende italiane, modificheranno il loro comportamento e il loro stile di gestione. Ossia se si occuperanno veramente di contrastare gli effetti della crisi e di fare andare meglio le aziende, oppure se contnueranno a comportarsi nell'analisi del nostro libro emerge in modo lampante, cioè questo modo tipico di occuparsi principalmente degli interessi personali in termini di retribuzioni, ma anche di altre utilità, anziché occuparsi di far andare bene le aziende. Gli importi di cui parliamo sono enormi per il singolo manager che li incassa, ma se spalmati su tutti i dipendenti di un'azienda sono cifre irrilevanti, quindi il problema non è che se i manager guadagnassero meno, le aziende andrebbero meglio, ma è esattamente l'opposto. Se le aziende fossero gestite meglio i manager guadagnerebbero meno. Lo stipendio dei manager non è la causa del cattivo andamento delle aziende, ma è uno degli effetti. E' il sintomo di una cattiva gestione delle aziende. All'estero sta succedendo una cosa più lineare, i manager che hanno gestito male le aziende e le banche vanno a casa. Lo leggiamo tutti i giorni sui giornali. In Italia non sta andando a casa nessuno, anzi sui giornali leggiamo le dichiarazioni di grandi manager e grandi banchieri che dicono che la crisi non accade a causa loro ma la crisi piove dal cielo.
Vediamo all'estero che in questi mesi, da quando si è abbattuta la crisi finanziaria mondiale, non solo molti capitani d'industri a perdono il posto e vanno a casa, ma alcuni hanno dovuto accettare un taglio di stipendio, dei cosiddetti bonus e dei famigerati premi di risultato, ma in alcuni Paesi, come ad esempio il governo della Germania, ha stabilito che i manager se ricevono aiuti pubblici per evitare che l'azienda fallisca, ma anche per evitare di perdere il posto, non potranno guadagnare più di 500 mila euro lordi l'anno. Questo potrebbe anche essere un errore, noi non pensiamo siano giusti i tetti imposti per legge, ma certamente una maggiore moderazione e un maggiore legame ai risultati è opportuno. Negli Usa dove le tre grandi case automobilistiche di Detroit rischiano di non sopravvivere se non riceveranno miliardi di dollari di aiuti, i top manager hanno ormai ridotto la paga base a un dollaro, almeno così annunciano, e il resto del premio sarà pagato se ci saranno i risultati. L'Italia in questo non è pervenuta, nel senso che nessuno ha ancora fatto annunci di questo tipo, tranne Profumo, che come abbiamo detto, è stato costretto dalle difficoltà della banca e dal rischio di andare a casa.
Autori: Gianni Dragoni e Giorgio Meletti
Fonte:www.beppegrillo.it

sabato 20 dicembre 2008

Editoriale

Negli anni Trenta del secolo scorso la borghesia americana affronta la Grande Crisi con lo spirito e la tenacia del manutentore che, constatato il pessimo funzionamento della macchina, cerca di ripararne i guasti e correggerne i difetti. Lo fa introducendo grandi riforme di sistema e reprimendo, anche con la violenza, sindacati e sinistra organizzata che sembravano volersi porre fuori o contro il sistema. Le borghesie europee, incalzate da un movimento operaio molto più forte e politicizzato di quello americano e a loro volta intrise di ideologie classiste e nazionaliste, pensano di trovare la soluzione nel nazifascismo, un capitalismo di Stato Dispotico non molto diverso da quello sovietico. Per fortuna vi riescono soltanto in Germania, Italia e Spagna. La conclusione della Seconda guerra mondiale spazza via il nazifascismo e i nazionalismi correlati e apre la strada all’internazionalizzazione prima e alla globalizzazione poi. Infine, nel 1989, la caduta del Muro di Berlino fa cadere le ultime illusioni palingenetiche sul comunismo. Da quel momento la crisi delle ideologie politiche del Novecento non è più un assunto teorico, è un fatto. Ma ci sono voluti quasi vent’anni perché fosse palese a tutti che il “Secolo Breve”, come lo chiama EricJ.Hobsbawm, era finito. Le controprove più recenti sono due: il modo in cui è stata affrontata e gestita la crisi innescata dai mutui subprime e l’elezione di Barack Obama a presidente degli Stati Uniti.


La crisi. È opinione largamente prevalente che non venga da un modello di sviluppo sbagliato in sé, ma dalle sue degenerazioni. George Soros, che certo non può essere sospettato di simpatie comuniste, sostiene che il capitalismo produce fisiologicamente bolle speculative che allontanano i prezzi dai valori reali sottostanti. Ma, aggiunge, occorre vigilare e porre limiti, altrimenti il fisiologico diventa patologico. Se siamo qui a parlarne è perché, evidentemente, non hanno funzionato né i limiti, cioè le regole, né i controlli, cioè le autorità. In primis quelle americane. Ma una volta trovatisi con le spalle al muro, gli americani hanno reagito con grande tempestività e pragmatismo, come avevano fatto un secolo prima. Hanno nazionalizzato alcune banche e somministrato robuste iniezioni di capitale pubblico all’economia. Una risposta “sbalorditiva” se vista con le lenti delle vecchie ideologie. Secondo le quali, confondendo democrazia e liberismo, quest’ultimo sarebbe un fine in sé, non il modo più efficace per far funzionare il capitalismo in condizioni “normali”. Lo stupore ha raggiunto l’apice quando, sulla scia degli Usa, anche l’Inghilterra del laburista Gordon Brown, la Francia del liberista Sarkozy e la Germania della democristianissima Angela Merkel si sono messe a fare altrettanto. Non sarebbe mai potuto succedere prima della caduta del muro di Berlino. A parte qualche piccola sbavatura – la ruspante candidata alla vicepresidenza Usa, le frange comuniste residuali in Europa, alcune componenti di destra improvvisata in Italia – a nessuno è venuto in mente di accusare i leader del mondo occidentale di voler abbattere il capitalismo. Men che meno è venuto in mente a russi e cinesi, che pure in materia vantano una discreta expertise. O forse proprio per quello.


Obama. I blue collar americani e i chicano avrebbero voluto Hillary Clinton, non Barack Obama. Lui non si è scoraggiato né intenerito e ha tirato dritto per la sua strada proponendo una terapia che in molti punti poteva essere condivisa anche dai repubblicani. Di suo ci ha aggiunto però: la messa al bando di qualunque discriminazione basate su razza, etnia e religione; l’appello alla partecipazione dei giovani; il richiamo ai valori di libertà costitutivi della società americana; la presa di distanza dalle lobby economiche che premono su Washington. Più Internet. Tutta merce non catalogabile, ancora una volta, con le categorie novecentesche di destra e sinistra, conservatori e progressisti, statalisti e liberisti eccetera. Obama ha fatto invecchiare di colpo il background culturale e politico che fa da mastice alla classi dirigente di mezzo mondo. Non è soltanto il primo leader di una globalizzazione che ha assoluto bisogno, come si dice, di governance, è anche e soprattutto il primo leader post-ideologico del nuovo Millennio. In un certo senso lo sono anche i post-comunisti Vladimir Putin e Hu Jntao, ma c’è una differenza sostanziale: Obama è stato selezionato prima ed eletto poi in maniera tangibilmente democratica, gli altri sono stati semplicemente eletti. Anche questo fa di lui l’unico leader spendibile a livello globale. La fine delle ideologie del Novecento libera il campo da scorie e macerie inutilizzabili ma non è ancora la soluzione. Può rilanciare il meccanismo inceppato della globalizzazione su basi più razionali (meno debito e più capitale) e più eque (maggiore attenzione alle persone e ai loro bisogni). Può essere la palla di neve che diventa valanga. Ma non può abolire le grandi differenze – di ricchezza, di conoscenza, di diritti – che esistono nel mondo globalizzato. La storia continua. Alle vecchie ideologie se ne vanno sostituendo altre, magari prese a prestito dalle religioni, come dimostrano soprattutto il fondamentalismo islamico, ma anche quello induista (si veda la caccia ai cristiani in Orissa) e cattolico-cristiano (si pensi alla pretesa di ridurre l’etica del nostro tempo a una sola, la loro). Al vecchio nazionalismo espansionista e militarista, si vanno sostituendo regionalismi autoreferenziali, su base etnica, à la carte. Se la vittoria di Obama non è la soluzione, tuttavia indica un metodo. Quello che cerca di coniugare principi e pragmatismo, visione del futuro e realismo nel presente, diritti e condizioni materiali di esistenza, etica pubblica e morale privata. Un punto a favore della laicità contro il dogmatismo e le superstizioni, vecchie e nuove.

Autore: Vittorio Borelli
Fonte: www.eastonline.it

giovedì 11 dicembre 2008

La guerra dei cinque giorni

La “guerra dei cinque giorni”, come è stata definita quella tra Russia e Georgia dello scorso agosto, non è necessariamente il prologo di una nuova Guerra Fredda. Potrebbe anzi essere l’inizio di una fase in cui le democrazie occidentali avranno un più realistico apprezzamento della politica russa e del modo in cui convivere con il Paese di Vladimir Putin e Dmitrij Medvedev. Ma questo sarà possibile soltanto quando avranno rinunciato ad alcuni dei luoghi comuni con cui la Russia è stata generalmente giudicata negli ultimi anni. Non esiste un sipario di ferro, ma una frontiera che separa percezioni completamente diverse della realtà internazionale e degli eventi degli ultimi anni, dalla rivoluzione delle rose in Georgia nel dicembre 2003 all’indipendenza del Kosovo negli scorsi mesi.
Conosciamo bene il punto di vista dell’Occidente sul diritto dei popoli alla libertà e le deprecabili tendenze autoritarie dello Stato russo. Ma non ci siamo chiesti quali fossero in questi anni le reazioni e i sentimenti della Russia. Non è sorprendente. Tutte le politiche estere hanno una memoria selettiva e ricordano soltanto i precedenti utili ai loro interessi. Ma non è realistico ignorare gli interessi degli altri e dimenticare, per esempio, le conversazioni fra Bush senior a Gorbaciov, durante le trattative per la riunificazione tedesca, quando il presidente americano promise che la Nato non si sarebbe estesa ai Paesi dell’ex blocco sovietico. Clinton dette le stesse assicurazioni, ma cambiò avviso e mise in cantiere, verso la metà degli anni Novanta, l’allargamento dell’organizzazione alla Polonia, all’Ungheria e alla Repubblica Ceca. Ebbe luogo nel 1999, l’anno in cui la Russia era alle prese con la crisi finanziaria del 1998, il passaggio dei poteri al vertice del Cremlino e una nuova guerra cecena. Putin ingoiò il rospo anche perché la collaborazione russoamericana durante la guerra afghana del 2001 e il vertice Nato-Russia a Pratica di Mare nel luglio dell’anno seguente gli dettero la sensazione che i punti d’accordo fossero più numerosi dei disaccordi. Ma le due rivoluzioni colorate in Georgia e Ucraina dimostrarono, agli occhi del russi, che l’America non si sarebbe fermata ai confini orientali della Polonia.
Da allora la Nato si è allargata sino a comprendere la Bulgaria (sede di una base americana), la Romania e soprattutto le tre repubbliche del Baltico, vale a dire tre Paesi che sono lungamente appartenuti allo Stato russo. Nello stesso periodo gli Stati Uniti hanno cominciato a negoziare con la Polonia e la Repubblica Ceca l’installazione di basi antimissilistiche nei loro territori. Washington sostiene che sono destinate a proteggere il continente americano dai missili iraniani, ma quando Putin propose, come alternativa, la creazione di una base russo-americana in Azerbaigian, ai confini con l’Iran, gli americani rifiutarono. È davvero sorprendente che la Russia si senta accerchiata e consideri l’ingresso nella Nato di Ucraina e Georgia come una minaccia? A coloro per cui Mosca è vittima di una storica, ossessiva sindrome dell’accerchiamento, i russi ricordano che Leningrado, nell’anni della Guerra Fredda distava poco meno di 2000 chilometri dal più vicino Paese della Nato. Oggi la distanza fra Pietroburgo e l’Estonia è di 160 chilometri. Occorre sgombrare il campo da altri luoghi comuni. La reazione russa all’attacco georgiano della notte fra il 7 e l’8 agosto è stata brusca e decisa.
Ma non meno sproporzionata dei 35 giorni durante i quali Israele ha bombardato il Libano nel 2006 e dei 78 giorni durante i quali la Nato ha bombardato la Serbia nel 1999. È vero che i russi, in Georgia, hanno immediatamente esteso l’area dei combattimenti e occupato il porto di Poti. Ma poteva forse lo stato maggiore russo escludere del tutto la possibilità che gli Stati Uniti usassero i porti sul Mar Nero per inviare materiale militare alle forze armate georgiane? Vi erano in Georgia, all’inizio del conflitto, circa 130 militari americani che addestravano i georgiani all’uso delle armi fornite dall’America negli anni precedenti. Quando combatte, un esercito non può limitarsi a vincere una battaglia: deve vincere la guerra. Esiste infine un luogo comune che concerne in particolare l’Europa.
I sostenitori della linea dura affermano che la linea “molle” dell’Unione europea è stata determinata dall’importanza delle forniture energetiche russe. Il petrolio ha sempre avuto una parte importante nella formulazione delle politiche dell’Europa comunitaria. Ma i rapporti dei Bush con la famiglia dei Saud e la sosta del vicepresidente americano Dick Cheney a Baku durante il suo viaggio nel Caucaso, dimostrano che il “vizio” non è soltanto europeo. Coloro che puntano il dito sul petrolio e sul gas finiscono per rimpicciolire e svilire i rapporti che Russia e l’Ue hanno interesse a creare. Viviamo nello stesso continente e siamo straordinariamente complementari. La Russia può darci un grande mercato e gli idrocarburi di cui abbiamo bisogno per la nostra economia; l’Europa può dare alla Russia i suoi capitali, la sua tecnologia, la sua cultura aziendale. Un accordo di partenariato, come quello che si è cominciato a discutere negli scorsi mesi a Bruxelles, puo creare una grande comunità d’interessi, utile all’economia e alla pace. Se gli Stati Uniti hanno altri interessi e ambizioni, l’Unione Europea ha il diritto di ricordare che le sue esigenze e la sua politica sono diverse da quelle di Washington.

Autore: Sergio Romano
Fonte: www.eastonline.it

mercoledì 10 dicembre 2008

Il 44° presidente degli Stati Uniti

La vittoria di Barack Hussein Obama è stata una sorpresa per coloro che non hanno seguito con attenzione e mente libera le trasformazioni della società americana. Per coloro, soprattutto, che non sanno leggere la democrazia se non come un sistema di regole e procedure di decisione politica, che non sanno cioè vedere che un lungo e abituale uso di queste procedure e regole comporta anche una trasformazione dei comportamenti pubblici di tutti i cittadini. La democrazia è un ordine politico che si regge sull’apprendimento, nel quale cioè è possibile avere una accumulazione di esperienza che si deposita nella psicologia collettiva e che agisce sulla volontà e il giudizio politico e morale dei singoli cittadini come abito mentale o seconda natura. Su questa possibilità di apprendimento individuale e collettivo riposa la possibilità che la democrazia duri nel tempo. Come straordinario esempio di apprendimento individuale e collettivo, la democrazia è opposta al populismo, il quale comporta il seppellimento del giudizio individuale in quello collettivo. Il fondamento individuale della democrazia è per tanto alla base dell’originalità di questo sistema che è collettivo senza essere l’espressione di una massa indistinta e anonima. Questa visione della democrazia è essenziale per comprendere la vittoria di Obama.
Obama è il primo presidente di colore in un paese che è stato segnato indelebilmente dalla Guerra Civile, voluta dagli Stati del sud (i Confederati) con l’intenzione espressa di proteggere il loro sistema economico e sociale fondato sulla schiavitù. Due mondi si sono scontrati nella Guerra Civile del 1861-65: quello gerarchico e nostalgico dell’aristocrazia del vecchio continente, e quello industriale, capitalista ed egualitario, certamente nei costumi e nelle leggi. La lotta è stata tra una democrazia aristocratica dove eguali potevano essere solo gli eguali e una democrazia individualistica dove eguali sarebbero stati tutti coloro che accettavano il patto costituzionale. Non è stata per nulla una lotta semplice, né soprattutto una lotta che si è conclusa con la vittoria definitiva di Abraham Lincoln e dell’Unione. Perché il 14° emendamento (inteso ad assicurare i diritti civili a quelli che erano stati schiavi fino ad allora) e il 15° emendamento (che proibisce a tutti gli stati dell’Unione di conculcare il diritto di voto per ragioni di razza) non hanno trovato attuazione piena e coerente fino al famoso Voting Act del 1965. Il Voting Act, poi esteso e perfezionato nel 1970, 1975 e 1982, è considerato a ragione come il vero successo della stagione delle lotte per i diritti civili perché codifica e quindi attua il 15° emendamento imponendo a tutti gli Stati alcuni specifici obblighi per rendere il diritto di voto effettivo.
Le regole elettorali, che dipendono dalle decisioni dei singoli Stati, hanno per un secolo ostacolato l’applicazione di quei due emendamenti conquistati con la Guerra Civile. La lotta dei neri contro la segregazione razziale negli Stati del sud ha segnato l’inizio della liberazione dei neri da un dominio gerarchico dei bianchi che nemmeno una guerra civile era riuscita a cancellare. La marcia della eguaglianza democratica è stata dunque (ed è) lunga, accidentata e mai conclusa. Obama è il segno di questa complessità. Egli rappresenta davvero al meglio la storia difficile della democrazia americana: perché fino all’ultimo gli osservatori politici pensavano che il razzismo non sarebbe stato facilmente sconfitto e che probabilmente nemmeno i sondaggi erano veritieri. L’ombra del razzismo si è quindi allungata su queste elezioni – il segno del passato era dietro quei timori. Ma il razzismo non ha avuto la maggioranza ed è stato scalzato da passioni o interessi più pressanti. Primo fra tutti l’orgoglio dell’eccezionalità americana: Obama è stato il più americano tra i due candidati, perché il segno tangibile che l’America è davvero capace di alimentare il sogno che milioni coltivano nel mondo di potere essere riscattati dalla miseria e dalla discriminazione, di essere semplicemente se stessi e liberi. Questo è stato il messaggio di Obama: non un messaggio da “politica della differenza” ma un messaggio nazionale di eguaglianza delle opportunità. Egli è quindi il più esemplare segno dell’eccezionalità americana. Inoltre, è un segno della grandezza della democrazia, perché ha dimostrato che con le regole democratiche si può conquistare un traguardo che in altri regimi richiederebbe senz’altro una rivoluzione. La democrazia riesce a correggere se stessa sovvertendo pacificamente l’ordine esistente. La sua natura è davvero rivoluzionaria quindi, proprio perché senza necessità di una rivoluzione. E poi la tolleranza: uno dei più bei comizi di Obama – un testo che insegno nel mio corso sulla democrazia – ha fatto dell’accettazione e del rispetto dell’altro il tema cruciale dell’eguaglianza democratica. Tolleranza è anzi una parola non giusta perché il diverso non deve essere tollerato affinché sia trattato come un eguale, ma invece riconosciuto e rispettato come un sé unico. Infine, la grande e in America consueta condivisione del patto costituzionale. Contrariamente a quanto succede nel nostro paese, dove la costituzione non è stata sottoscritta da una parte del corpo politico (certamente dai padri di un partito che è oggi al governo), negli Stati Uniti la Dichiarazione di Indipendenza, la Costituzione, il Bill of Rights sono un patrimonio di tutti, e di tutte le generazioni che si sono succedute dal 1787 e che si aggiungono giorno per giorno, con la naturalizzazione di sempre nuovi cittadini. Nessuno pensa che siccome è così vecchia, la legge fondamentale sia destituita di valore o abbia necessità di revisione e addirittura di manomissione. La lunga durata della legge fondamentale è prova della sua giovinezza, non della sua vecchiaia, perché sono i cittadini che vivono “qui e ora” che la convalidano e la legittimano rispettandola. E a quella legge fondamentale tutti indistintamente, conservatori e democratici, si appellano come a un patrimonio comune, il Dna del paese.
Eppure una costituzione significa e anzi naturalmente implica che ci sono diverse interpretazioni, poiché le regole si fanno proprio perché si presumono disaccordi e dissensi. E dietro queste diverse interpretazioni si cela l’aspirazione politica o (insisto a usare questa parola) ideologica: pro o contro l’eguaglianza, pro o contro il privilegio. Obama ha ottenuto una larga maggioranza, non però l’unanimità. È il presidente di tutti gli americani, ma non tutti condividono il suo messaggio di eguaglianza. L’eguaglianza delle opportunità che a ogni comizio ha messo alla base della sua straordinaria e ragionata retorica è il segno che è proprio su questa frontiera che oggi si combatte la battaglia politica della cittadinanza democratica. Forse per la consapevolezza che le risorse sono davvero scarse, forse perché godere dei privilegi piace comunque, il fatto è che l’ottimismo con il quale la democrazia si è consolidata negli anni della ricostruzione del secondo dopoguerra ha lasciato il posto a un saggio pessimismo sulle grandi difficoltà che essa ha di mantenere fede alle proprie promesse.
Obama rappresenta al meglio il pessimismo della ragione perché egli sa molto bene, e lo ha detto anche nel discorso di Chicago la sera della vittoria, che ci vorranno anni (forse più di un mandato, come già a volersi ricandidare) per poter cercare di raddrizzare una condizione di disagio e disuguaglianza che è diventata preoccupante perché si sta allargando a macchia d’olio. La forza della volontà gli viene dalla storia sua e del suo paese. Perché è vero che l’America è nata con questo ragionato obiettivo fin da quando i primi europei cenciosi si stabilirono sulle coste del New England: l’obiettivo di non essere asserviti, di vivere con umana dignità e non subire dominio e oltraggio da nessuno. Obama è il segno di questa etica, di questa idea di eguaglianza e rispetto dell’individuo che ha vinto proprio in quella parte della società americana che più ha subito violenza, ingiustizia e oltraggio. La schiavitù è l’opposto estremo dell’eguaglianza democratica. Non si può non sottolineare il fatto che Obama ha conquistato la Virginia, dove ha preso il via la Guerra Civile e dove si è annidata la contraddizione più stridente nella quale si è dibattuta la società americana: perché la Virginia è lo stato di Thomas Jefferson, il padre spirituale dell’eguaglianza e della ragione illuministica e però anche il proprietario di schiavi che sinceramente non pensava ai neri come eguali. La democrazia americana si è sviluppata negli interstizi di questa contraddizione, e ora Obama ha, primo democratico, conquistato la Virginia, lui che viene dall’Illinois, lo stato di Abraham Lincoln. La liberazione degli schiavi ha celebrato il sogno americano con la vittoria di Obama. Un secolo e mezzo di lotte cruente e durissima sofferenza che ha forgiato l’ethos della cultura “liberal” – quella dei diritti e delle eguali opportunità. I suoi nemici sono facilmente individuabili e sono tutt’altro che in ritirata, qui negli Stati Uniti (dove la vittoria di Obama è l’inizio, non la fine di un percorso difficile) e nei nostri paesi così poco rispettosi dell’eguaglianza democratica, così manipolati da venditori di fumo che devono alle facili e per nulla pari opportunità molta della loro fortuna e della nostra sfortuna.


Autrice: Nadia Urbinati
Fonte: www.lostraniero.net

venerdì 5 dicembre 2008

L'ecologia ci salverà

di Jeremy Rifkin
La recessione ha una sola via d'uscita: l'hi-tech verde e i combustibili puliti. Per dare il via alla Terza rivoluzione. Dopo quelle del carbone e del petrolio
Le case automobilistiche europee, americane e cinesi stanno facendo appello ai rispettivi governi affinché vengano in loro soccorso con una consistente infusione di capitali pubblici. E avvertono che se gli aiuti non saranno immediati potrebbero andare incontro allo sfacelo. Se da una parte alcuni sono favorevoli a un intervento di salvataggio, perché temono che qualora le case automobilistiche fallissero l'economia subirebbe un colpo catastrofico, dall'altra parte c'è chi sostiene che in un mercato aperto le aziende dovrebbero essere lasciate libere di sopravvivere o di soccombere. Esiste tuttavia una terza strada per affrontare questo problema, che esigerebbe un cambiamento radicale di mentalità in relazione alla natura e al significato di ciò a cui stiamo assistendo e di ciò che dovremmo fare in proposito.

L'introduzione del motore a combustione interna e l'inaugurazione di una infrastruttura di reti autostradali contrassegnarono nel Ventesimo secolo l'inizio dell'era petrolifera e della seconda rivoluzione industriale, nello stesso modo in cui nel Diciannovesimo secolo l'introduzione del motore a vapore, della locomotiva e delle reti ferroviarie avevano contrassegnato l'avvento dell'era del carbone e della prima rivoluzione industriale.

La seconda rivoluzione industriale si avvia ormai al tramonto e l'energia e la tecnologia che più di altre l'hanno alimentata sono tenute in 'vita artificiale'. L'incredibile aumento del prezzo del petrolio sui mercati internazionali registrato negli anni più recenti indica l'inizio della fine, non soltanto per le automobili che consumano molta benzina, ma anche per lo stesso motore a combustione interna. L'amara realtà è che la richiesta di petrolio in forte aumento a livello internazionale si scontra con scorte e rifornimenti sempre più limitati e sempre più in calo. Ne consegue un prezzo sempre più alto del combustibile, che provoca una spirale inflazionistica e si ripercuote lungo l'intera catena logistica e dei rifornimenti, e che a sua volta funge da freno naturale per i consumi globali, specialmente nel momento in cui il greggio inizia a sfiorare i cento dollari al barile. È questa, infatti, la soglia in cui si collide contro il muro di sbarramento del 'Picco della Globalizzazione'. È a questo punto che il motore economico globale si ferma, che l'economia si contrae, che i prezzi dell'energia scendono perché il mondo intero usa meno petrolio. L'industria dell'auto è un segnale di allarme precoce, che ci fa comprendere come ci stiamo avvicinando al tramonto della seconda rivoluzione industriale.

Che cosa possiamo fare concretamente? Dobbiamo saper cogliere questa circostanza alla stregua di un'opportunità e rilanciare il dibattito globale sull'industria dell'auto nel suo complesso. Ciò implica di spostare il dibattito, passando dagli interventi di soccorso e di salvataggio in extremis dell'industria del motore a combustione interna alimentato a benzina alla ricerca, lo sviluppo, l'utilizzo di veicoli elettrici e ricaricabili a idrogeno con celle a combustibile, alimentati da energie rinnovabili. La trasformazione del nostro attuale regime energetico e della tecnologia automobilistica è il punto di ingresso nella terza rivoluzione industriale e in un'economia post carbonifera nella prima metà del Ventunesimo secolo.

Affinché questa transizione possa aver luogo, dobbiamo renderci conto che le rivoluzioni nei mezzi di trasporto sono sempre state parte integrante delle rivoluzioni nelle infrastrutture più ampiamente intese. La rivoluzione del motore a vapore alimentato a carbone impose grandi cambiamenti alle infrastrutture, ivi compresa la trasformazione nei trasporti, con un passaggio da quelli via di mare e su acqua in genere a quelli su rotaia ferroviaria, e la cessione di terreni pubblici per lo sviluppo di nuove città, sorte in corrispondenza di importanti snodi e incroci ferroviari. Analogamente, l'introduzione del motore a combustione interna alimentato a benzina richiese la realizzazione di un sistema di strade nazionali, la messa in opera di oleodotti, la creazione di una rete di strade secondarie commerciali e residenziali suburbane lungo il sistema autostradale internazionale.

Il passaggio dal motore a combustione interna a veicoli ricaricabili a idrogeno con celle a combustibile comporta un impegno equiparabile nei confronti di un'infrastruttura adatta alla terza rivoluzione industriale. Tanto per cominciare, la rete elettrica nazionale e le linee di trasmissione dell'energia dovranno essere trasformate, e passare da una gestione attuata tramite comandi e controlli centralizzati e servomeccanici a una gestione decentralizzata e digitalizzata. Daimler ha già firmato un accordo di partenariato con Rwe, società energetica tedesca, e Toyota ha fatto altrettanto con Edf, società energetica francese, per installare milioni di postazioni di ricarica lungo le autostrade, nei parcheggi e nei garage, nelle aree commerciali come in quelle residenziali, per consentire alle nuove automobili di fare il pieno ricaricando le batterie collegandosi semplicemente a una presa.

Per adattarsi a milioni di nuovi veicoli ricaricabili, le società erogatrici di elettricità stanno iniziando a modificare le loro reti, utilizzando le medesime tecnologie che hanno dato luogo alla rivoluzione di Internet. Le nuove reti elettriche, cosiddette reti intelligenti o intergrid, rivoluzioneranno le modalità tramite le quali l'elettricità è prodotta, distribuita e resa disponibile. Milioni di edifici già esistenti - appartamenti residenziali, uffici, fabbriche - dovranno essere modificati o ricostruiti per fungere da 'impianti elettrici autentici', in grado cioè di catturare l'energia rinnovabile disponibile a livello locale - solare, eolica, geotermica, delle biomasse, idroelettrica e prodotta dal moto ondoso di mari e oceani - per generare elettricità che possa alimentare gli edifici, condividendo al contempo l'energia prodotta in eccesso tramite le reti intelligenti, proprio nello stesso modo in cui noi oggi produciamo informazioni e le condividiamo grazie a Internet.

L'elettricità che produrremo nei nostri edifici, a partire dalle energie rinnovabili, potrà essere utilizzata anche per alimentare le automobili elettriche ricaricabili o per creare idrogeno che alimenti i veicoli con celle a combustibile. A loro volta, tutti gli autoveicoli elettrici ricaricabili e a idrogeno con celle a combustibile fungeranno da impianti elettrici mobili, e potranno rivendere l'energia prodotta in eccesso alla rete elettrica.

Il passaggio alle infrastrutture indispensabili per la terza rivoluzione industriale richiederà un ingente sforzo e finanziamenti pubblici e privati. Dovremo trasformare completamente l'industria automobilistica, dotandola di nuove apparecchiature, riconfigurare le reti elettriche, convertire milioni di edifici commerciali e residenziali in autentici impianti energetici. La sola creazione di una nuova infrastruttura comporterà l'investimento di centinaia di miliardi di dollari. C'è chi sostiene che non possiamo permettercelo: in tal caso, però, gli scettici dovrebbero spiegarci come si prefiggono di riportare in crescita un'economia globale oberata dai debiti, che oltretutto dipende in tutto e per tutto da un regime energetico che sta per collassare.

Cerchiamo di essere chiari: i trilioni di dollari con i quali ci si ripromette di riportare in vita l'economia globale non sono niente più che un semplice 'espediente di sopravvivenza'. Se invece intendiamo dare nuova vita all'economia globale, risolvendo al contempo la triplice minaccia costituita dalla crisi finanziaria globale, dalla crisi energetica globale e dalla crisi del cambiamento del clima globale ciò che dobbiamo fare è creare le premesse per una nuova era energetica e un nuovo modello industriale.

Le infrastrutture necessarie alla terza rivoluzione industriale creeranno milioni di posti di lavoro 'verdi', daranno vita a una nuova rivoluzione tecnologica, aumenteranno considerevolmente la produttività, introdurranno nuovi 'modelli di business open source' e creeranno molteplici opportunità economiche nuove.

Se i governi non interverranno immediatamente e con determinazione per far procedere celermente la realizzazione di una nuova infrastruttura per una terza rivoluzione industriale, l'esborso di fondi pubblici per sostenere un'infrastruttura economica vecchia e un modello industriale obsoleto decurterà ancor più le risorse finanziarie rimaste, lasciandoci privi delle riserve necessarie a effettuare i cambiamenti fondamentali.

La terza rivoluzione industriale comporta una nuova era di capitalismo allargato, in virtù del quale milioni di proprietari di casa e di aziende esistenti e nuove diventeranno produttori di energia. Così facendo, avrà luogo la transizione verso un'era post-carbonifera sostenibile, che di fatto potrà attenuare gli effetti del cambiamento del clima sulla biosfera terrestre.

Collocando l'industria dell'automobile al centro del cambiamento delle infrastrutture necessarie a passare dalla seconda alla terza rivoluzione industriale, inizieremo a cambiare mentalità, e il dibattito passerà dall'aiuto alle aziende in gravi difficoltà a come investire al meglio in un nuovo schema economico planetario. Investire miliardi di dollari diverrà un presupposto indispensabile e necessario per creare nuove opportunità economiche per tutti nel Ventunesimo secolo.


Jeremy Rifkin da "L'Espresso"
http://espresso.repubblica.it/dettaglio/Lecologia-ci-salvera/2050669&ref=hpsp

giovedì 4 dicembre 2008

Detassatemi: faccio un lavoro straordinario

Il governo Berlusconi vuole mantenere le promesse: niente ICI per la prima casa e detassazione degli straordinari, ad eccezione dei dipendenti statali. A dispetto dell'eccezione, vorrei fare un colpaccio e farmi detassare tutto, perchè faccio un lavoro straordinario.Faccio un lavoro straordinario, perchè non timbro cartellini, non ho un orario minimo e non uno limite. Posso lavorare 1-2-4-8-16 ore al giorno. Posso lavorare in un'università, in un centro di ricerca, passeggiando sulla riva del mare ed elaborando una nuova teoria delle stringhe, esercitandomi in arrampicata e meditando un originale set-up sperimentale: faccio un lavoro straordinario. Posso lavorare la vigilia di Natale o a capodanno, durante i week-end ed in notturno, alla romantica luce di un sincrotrone: faccio un lavoro straordinario. Lavoro sotto contratto, cococo, cocopro, sotto assegno di ricerca, sotto borsa di studio…ma lavoro anche gratis, per piacere e passione, perchè non riesco a fare a meno di tenere a bada la mia curiosità, e ditemi se questo non è un lavoro straordinario. Vado a fare esperimenti in giro per il mondo, ma questo non è considerato straordinario, perchè la diaria per missioni in Italia (di 10 euro al giorno) non ce la passano più, la diaria di ben 20 euro che ci spetterebbe per missioni all'estero la segretaria non ce la vuole dare perchè "Sei già rimborsato dall'ente estero, vuoi pure la diaria?!". Eppure pianificare un esperimento, preparare "a casa" i campioni da misurare, partire, effettuare le misure nel breve tempo che hai a disposizione lavorando anche 30 ore di seguito, ve lo assicuro…è un lavoro straordinario. Non ho ferie, ufficialmente. Posso farne per una settimana, dieci giorni, un mese, chissà. Tutto dipende dal mio datore di lavoro, il che è comunque straordinario. Posso ammalarmi, rimanere incinta e decidere di continuare a lavorare, oppure di smettere e farmi sospendere lo stipendio: non ditemi che questo è qualcosa di ordinario. Posso lavorare su un argomento su cui lavorano tanti altri gruppi sparsi per il mondo, e tenerli costantemente d'occhio tramite le loro pubblicazioni e comunicazioni a congressi. I miei competitori, così come i miei collaboratori, non sono dietro l'angolo, ma magari in un altro continente, ma è esattamente come se fossero al mio fianco perchè quello che conta è arrivare al risultato e pubblicarlo, non conquistarsi un certo mercato, in una certa zona del mondo. Questo non è straordinario?! Nel mio lavoro, non ho regole da infrangere. La costruzione di un modello, la sua verifica sperimentale, la sua conferma o il suo fallimento, sono processi che avvengono secondo logica e la logica ha le sue regole. Se poi scopro sperimentalmente che una regola, una legge teorica non è verificata, allora non s'è verificata "l'eccezione che conferma la regola", ma è la regola a non essere universalmente valida, e quindi va cambiata. Insomma le regole si possono cambiare, ma non infrangere: non è un lavoro straordinario?
Autrice: Maria Grazia Ortore
Fonte: Maggio 21, 2008.

mercoledì 3 dicembre 2008

Il giorno in cui Wall Street diventò socialista

America dove vai
Il giorno in cui Wall Street diventò socialista


Per evitare il crollo della Borsa e il congelamento del mercato del credito, che rischiavano di coinvolgere tutte le attività economiche, le autorità americane hanno rinunciato ai salvataggi in successione in favore di un progetto complessivo. Henry Paulson e Ben Bernanke, rispettivamente ministro dell'economia e presidente della Riserva federale, hanno proposto che la finanza pubblica - cioè il contribuente - riscatti i crediti bancari problematici fino ad un tetto di 700 miliardi di dollari. In piena campagna elettorale, il Congresso americano recalcitrante davanti ad un simile impegno finanziario, senza precedenti né contropartite, ha dovuto alla fine votarlo. Il pericolo di fare esplodere il deficit di bilancio e di assestare un nuovo colpo alla credibilità del dollaro era davanti a tutti. Un senatore non ha esitato a fustigare un «socialismo finanziario», considerato «non americano». Come accade spesso in simili circostanze, la burrasca finanziaria ha provocato una marea di buoni propositi di facciata sulla «moralizzazione» del capitalismo, l'urgenza di una «regolamentazione», la necessità di punire i «colpevoli». C'è chi si spinge ancora più in là: «Wall Street così come l'abbiamo conosciuta smetterà di esistere», annuncia già il... Wall Street Journal.

di FRÉDÉRIC LORDON *

Ci voleva l'ingenuità di un bimbo o anche il gusto del magico per prendere sul serio l'atteggiamento marziale delle autorità americane di fronte al fallimento della banca d'affari Lehman Brothers, che poi la storia si è incaricata di trasformare, in meno di due giorni, in un gesticolare disperato. Rifiutare di soccorrere la banca al collasso era una scommessa estremamente azzardata, anzi per dirla tutta insostenibile se doveva segnare una svolta strategica.È vero che in quello che accade oggi, c'è di che perdere la testa, e che la successione sempre più rapida di situazioni critiche ciascuna delle quali percepita in tempo reale come un «picco» della crisi, che viene poi immediatamente cancellato da un altro ancora più grave ed ancora più spettacolare sembra fatta apposta per precipitare in un abisso di sgomento e disorientamento chi deve dettare le regole.I week-end di emergenza si susseguono a un ritmo sempre più accelerato - 16 marzo, Bear Stearns; 12 luglio, Fannie Mae e Freddie Mac, primo atto; 6 settembre, gli stessi, secondo atto (leggere l'articolo di Ibrahim Warde a pagina 7); 13 settembre, Lehman Brothers e Merrill Lynch; 16 settembre (non è passata nemmeno una settimana), American International Group (Aig) - e il binomio Riserva federale - dipartimento del Tesoro, ogni volta convinto di essersi superato, scopre di non aver fatto niente e che bisogna ricominciare daccapo. Concediamogli di aver finora coordinato performance spettacolari, benché del tutto inadeguate a fermare in modo definitivo il crollo della finanza americana, e di averlo fatto ad un costo che non è semplicemente finanziario, in quanto né il presidente della Riserva federale, Ben Bernanke, né, meno ancora, Henry Paulson, ex presidente di Goldman Sachs - il fiore all'occhiello in assoluto del capitalismo assoluto, poi diventato segretario al Tesoro di un'amministrazione molto di destra - , avrebbero mai immaginato di vivere un giorno il doloroso paradosso di vedersi trattare da «socialisti», ogni volta che sono costretti a fornire un aiuto pubblico per salvare la finanza privata.È forse anche per farla finita con questa infamia che, sia l'uno che l'altro, fin dalla settimana dell'8 settembre - proprio quando, sfiniti dal salvataggio di Fannie e Freddie, avrebbero dovuto sullo slancio continuare con quello di Lehman! - , hanno fatto pollice verso e mostrato alla comunità finanziaria che la prossima tappa si sarebbe negoziata senza di loro.Frustrazioni personali a parte, la posizione del tandem «Fed-Treasury» (Riserva federale-dipartimento del Tesoro) è comprensibile. Le autorità si preoccupano, non a torto, del precedente rappresentato da ognuno dei loro interventi e del fatto che i banchieri privati potrebbero tranquillamente lasciarsi andare al fallimento, sapendo che all'ultimo momento «bisognerà» salvarli, come è già stato fatto per Bear Stearns e Fannie-Freddie. La morale si indigna di fronte a queste facilitazioni; difficilmente si potrebbe restare calmi davanti allo spettacolo di una finanza arrogante e sempre più ricca quando tutto va bene, e che poi si rifugia tra le braccia del potere pubblico, trattato in genere come un'aberrazione di tipo sovietico, per mendicare protezioni e favori.E però...! Come spesso succede, la morale è il mezzo più sicuro per fuorviare l'analisi - il che, comunque, non vuol dire che l'indignazione da cui deriva sia illegittima né, ancor meno, che non si debba capitalizzarla per accumulare le risorse politiche con cui colpire vigorosamente più tardi. Ma solo più tardi - senza aspettare troppo, tuttavia...- , cioè dopo aver analiticamente messo in chiaro di cosa si sta parlando.Ora, il problema è il rischio sistemico, cioè la possibilità, vista la densità degli interscambi tra banche, che il cedimento di un solo attore scateni, per successive ondate di choc, una cascata di fallimenti collaterali.A scanso di equivoci liberisti, precisiamo che nel «rischio sistemico» c'è l'espressione «sistemico», il che significa che è un problema di «sistema»... cioè dell'insieme delle istituzioni della finanza privata, potenzialmente coinvolgibili in un crollo globale. E, se è proprio necessario essere ancora più espliciti, il problema è che, una volta in rovina il «sistema» della finanza, dunque del credito, semplicemente non c'è più attività economica possibile. Zero assoluto.È sufficiente a fare intravedere l'enormità delle conseguenze?Per quanto penoso possa essere, non vi sono altre soluzioni di fronte alla constatazione che, una volta scoppiata una bolla finanziaria e armato il rischio sistemico, la banca centrale perde praticamente ogni margine di manovra: il ricatto costituito dal fatto che la finanza privata ha la capacità di trascinare nel suo tracollo tutto il resto dell'economia - il crollo della prima sarà necessariamente il crollo dell'altra - e di conseguenza di costringere l'intervento pubblico a soccorrerla, questo ricatto è, senza rimedio possibile, il nocciolo duro della crisi. È per questo che una ri-regolamentazione finanziaria significativa non può farsi che attorno all'obiettivo strategico di impedire che le bolle si riformino (1) - dopo, è troppo tardi.Si lotta contro il rischio sistemico solo sradicandolo; non appena si ricostituisce, e soprattutto non appena si attiva, la partita è persa.Pur senza manifestare una qualche seria volontà di sradicamento, la Riserva federale è però cosciente del livello a cui è strategicamente dominata, nel gioco che la oppone a una finanza privata in crisi, paradossalmente tanto più in posizione di forza quanto più è in difficoltà.Perciò cede, con la morte nel cuore, al susseguirsi di ingiunzioni da parte delle diverse banche che sprofondano e che le chiedono aiuto, salvo lasciare che si produca un'irreparabile catastrofe. Nel marzo 2008, Bear Stearns minaccia di non pagare 13.400 miliardi di dollari di transazioni sui derivati di credito (2)- è dieci volte più del Long Term Capital Management (Ltcm), che aveva rischiato di far crollare la finanza americana nel 1998. In luglio, Freddie e Fannie minacciano di non onorare il loro debito di 1.500 miliardi di dollari. Molte istituzioni finanziarie di grosso calibro hanno investito in questi titoli: fondi pensione - le pensioni - , fondi mutualistici - il risparmio ordinario del pubblico - , e anche varie banche centrali straniere! È fuori discussione, per la sopravvivenza del sistema finanziario americano nel suo insieme, che possa succedere una cosa del genere.Henry Paulson, segretario al Tesoro, non ha bisogno che gli si faccia uno schema: 25 miliardi di soldi pubblici sono mobilizzati il 12 luglio in linee di credito e in un inizio di ricapitalizzazione.Il 6 settembre, ci si rende conto che questa richiederà invece...200 miliardi! Perfetto, il contribuente ne metterà 200. «I didn't want to have to do that», confessa tuttavia Paulson, allarmato dal suo stesso mutarsi in socialista. «Non avrei mai voluto farlo» - ma comunque lo ha fatto. E, in verità, non aveva scelta. Però la Lehman è assai più piccola, e così la «Fed-Treasury» coglie l'occasione per «avere una scelta». E non vuole mancarla a nessun costo. Quella lì, la pagherà per tutti, e con la rabbia che si è dovuta ingoiare nel lasciarsi storcere le braccia le volte precedenti.Ma, pur offrendo un'eccellente possibilità di scaricare la bile, l'«op?portunità» Lehman richiedeva comunque di essere accuratamente valutata, prima di «lasciarla morire». Tenuto conto della sua dimensione e dell'esposizione delle altre banche sue controparti, un default Lehman costituisce o no un rischio sistemico?Certo, l'esposizione di Lehman sui derivati è infinitamente minore di quella di Bear Stearns - 29 miliardi di dollari contro 13.400(3)... Ma Lehman cancella comunque WorldCom dai tabulati, diventando così il più grosso fallimento della storia degli Stati uniti, con 613 miliardi di debiti. Tecnicamente non si tratta di un default equivalente, perché Lehman ha degli attivi e la procedura di liquidazione serve proprio a realizzarli.Ma quanto valgono esattamente questi attivi? È tutta qui la questione.Ci sono come minimo 85 miliardi di titoli avariati (di cui 50 miliardi di derivati di subprime), che il piano di rilancio, alla fine abortito, studiato durante il week-end dal 12 al 14 settembre, prevedeva di accantonare in una bad bank ad hoc. Ottantacinque miliardi, è il loro valore in quel momento, ma ci si chiede quanto ne resterà alla fine di una vendita in liquidazione - anche se, coscienti del rischio di vedere crollare i valori ancora più in basso, le autorità americane prevedono una liquidazione «ordinata», per capirsi: estesa su diversi mesi.Ciò nonostante: la riduzione di valore si annuncia severa; e non è solo un problema di Lehman. Perché la norma contabile del «mark-to-market», cioè della contabilizzazione degli attivi al valore di mercato istantaneo, costringerà tutte le altre istituzioni finanziarie a valutare a loro volta a prezzi di liquidazione «speciale Lehman» quei medesimi attivi di cui i loro bilanci sono ancora pieni - con, per di più, tutte le minusvalenze supplementari immaginabili.Se almeno il rischio di svalutazioni collaterali fosse il solo...Ma vi si aggiunge il rischio di contropartita, legato al fatto che le molteplici transazioni nelle quali Lehman era implicata resteranno non saldate. Oltre all'attivazione dei Cds (Credit Default Swap), quei prodotti derivati che offrono a chi li compra un'assicurazione contro la perdita di valore dei loro vari attivi obbligazionari.Se ci sono degli assicurati, vuol dire che ci sono, dall'altra parte, degli assicuratori. Ora il fallimento fa implacabilmente scattare l'operazione dei Cds emessi a protezione del debito Lehman, e gli indennizzi da versare si annunciano considerevoli. È molto spiacevole perché, in base all'esperienza, il meccanismo assicurativo dei Cds, impeccabile sulla carta, si è rivelato uno dei più ambigui; ed il mercato dei Cds è di una tale fragilità, da rischiare pesanti scosse ogni volta che viene sollecitato un po' brutalmente da un fallimento. Purtroppo, nel momento in cui si consuma quello di Lehman, si è appena usciti dalla nazionalizzazione di Fannie e Freddie, e molti temono che già da sola essa rappresenti un grave rischio per il mercato dei Cds... Ma è proprio su questo insieme di minacce che contava la «Fed-Treasury» per liberarsi dal salvataggio di Lehman e «convincere» i banchieri della piazza a farsene carico, in nome del loro stesso interesse.Non c'è stato niente da fare, nessun piano privato è uscito da quel frenetico week-end. Il fatto è che Wall Street è un'astrazione, che copre una vasta gamma di interessi particolari, talvolta divergenti.Il piano di rilancio, il cui fallimento ha portato Lehman al deposito di bilancio, prevedeva il riacquisto della «banca buona» da parte di Barclays e Bank of America (alla fine questa si indirizzerà verso Merrill Lynch) e l'accantonamento della «cattiva» mediante un finanziamento collettivo della piazza.Gigantesca partita di poker truccato Ma la «piazza», vale a dire chi, non avendo i mezzi per ricomprare le parti buone, si vedeva tuttavia sollecitato a riassorbire le minusvalenze di quelle cattive, ha avuto difficoltà ad accettare di impegnare i propri utili per permettere a due fortunati di andarsene con i gioielli della Corona, lasciando ad altri di riparare il castello in rovina.In verità, tutto il week-end dal 12 al 14 settembre alla fine si è rivelato niente altro che una gigantesca partita di poker truccato: tra la «Fed-Treasury», che ostentava la sua volontà di non intervenire, Wall Street, che inizialmente l'ha interpretata, a torto, come una strategia della tensione per aumentare il coinvolgimento delle banche private, il conflitto delle suddette banche private, divise tra chi riacquista per opportunismo e chi è costretto a finanziare, questi ultimi recalcitranti a fare un favore ai primi, ma consapevoli che per i propri interessi non era indifferente la sopravvivenza di Lehman; in pratica, si trovavano riunite tutte le condizioni per rendere improbabile il coordinamento del salvataggio.La «Fed-Treasury» dunque non mentiva. Ha lasciato fare. Non è più socialista. Benché - anche se in quel momento non lo sapeva ancora - per soli due giorni! Ma ha così tanta voglia di crederci. Da quasi una settimana, è energicamente incoraggiata da tutti i suoi ammiratori, un po' turbati dai sorprendenti percorsi che è stata costretta a prendere fino a quel momento. L'editorialista del Financial Times commenta con soddisfazione: «È tempo che le autorità si ritirino (...) Quanto fatto finora dovrebbe essere sufficiente(4. Ma non è il «Ft» che decide se «quanto fatto è sufficiente» o no, è la situazione! Ora, non solo la situazione Lehman non ha ancora rivelato i suoi reali rischi, ma la scommessa della Fed è lontana dall'essere vinta, nel momento in cui crede di ripudiare il suo socialismo, perché, dietro, maturano altre situazioni, che già minacciano di rendere la sua uscita di scena simile agli addii dei Compagnons de la chanson: reversibile e a ripetizione.Tra la prima uscita di scena e quella del rientro non passano quarantotto ore - e che festa! Aig può essere considerato un caso esemplare.Vi si concentrano e danno spettacolo tutte le aberrazioni della finanza contemporanea. Poiché il semplice mestiere d'assicuratore è ormai troppo scialbo, Aig si è data una filiale «prodotti finanziari» e si è lanciata a corpo morto nel mercato assicurativo uno po' speciale dei Cds. Ed ecco Aig, in pieno periodo di dissesto finanziario, impegnata per 441 miliardi di dollari di titoli da garantire, di cui 57,8 miliardi legati ai subprime (5).Inutile dirlo, le sue perdite sono colossali: 18 miliardi di dollari per i tre trimestri passati, e quello in corso si annuncia brillante poiché, tra attivazione dei Cds e svalutazioni collaterali, il fallimento di Lehman potrebbe fare salire la perdita accumulata di Aig a 30 miliardi di dollari - nei quali si trovano anche 600 milioni legati alla svalutazione completa delle azioni Fannie-Freddie a seguito della nazionalizzazione.Le acrobazie dei due compari In queste condizioni, le agenzie di rating, obnubilate dalla necessità di rifarsi una verginità per fare dimenticare i tanti errori passati, non esitano ad abbassare severamente la valutazione di Aig, con il risultato di obbligarla a soddisfare immediatamente le provvigioni dette «richiami di margine», a compensazione del deterioramento della sua qualità di assicuratore nei contratti (Cds) in cui è implicata.Ma come può Aig sborsare immediatamente da 10 a 13 miliardi di dollari di richiami di margine, quando sta già colando a picco?Per una giornata, la «Fed-Treasury», ancora nell'ebbrezza della sua recentissima «desocializzazione», ma comunque un po' scossa dalla portata dei danni che si annunciano, immagina di organizzare un soccorso privato per Aig, nel quale Goldman Sachs e JPMorgan sarebbero alla testa di un credito sindacalizzato di 75 miliardi di dollari.Sembra non ci si ricordi che, solo alla vigilia, le dieci principali banche della piazza sono già state pregate di costituire un fondo di 70 miliardi di dollari per sostenere la liquidazione «ordinata» di Lehman.... L'impossibilità del soccorso privato era prevedibile, la necessità dell'intervento pubblico, inevitabile. Nondimeno, stupisce la sua portata. In cambio di un prestito-relé di 85 miliardi di dollari della banca centrale, lo stato acquista il 79,9 % del capitale di Aig.Nella sua brevità, il comunicato della Riserva federale del 16 settembre resta tuttavia stupefacente. Esiste un precedente al fatto straordinario che la Fed presti denaro a una non-banca? Da qui si misura la portata delle concessioni che la crisi le ha strappato. In marzo, aveva deciso, per la prima volta dal 1929, di ammettere le banche d'investimento al rifinanziamento (al quale avevano diritto fino ad allora solo le banche di deposito); ora ecco allo sportello un'impresa di assicurazione...Ma il seguito è ancora più incredibile. Perché, da una parte, la Riserva federale ed il Tesoro sembrano agire qui in un'unità organica prossima alla fusione pura e semplice. D'altra parte, la partecipazione federale del 79,9% in Aig sembra essere la «contropartita» del prestito della Fed. Ma da quando, un prestito è concesso in cambio di una parte di capitale? Il prestito è destinato ad essere rimborsato - è garantito da tutti gli attivi di Aig ed il suo tasso penalizzante è stato fissato proprio per incitare ad un rapido rimborso. Una volta estinto il credito, lo stato federale rimarrà tuttavia azionista al 79,9%. Cioè si è concesso una presa di controllo senza spendere una lira, per il momento: un esproprio! Per essere una ricaduta di socialismo, è una di quelle vere, e coi fiocchi! Il New York Times riporta che Paulson e Bernanke, apparsi la sera del 16 settembre per annunciare il loro piano, hanno l'«aria scura».E si capisce: in confronto a loro, il presidente venezuelano Hugo Chávez è un fantoccio liberista venduto al grande capitale: lui paga quando nazionalizza! Ma le acrobazie ultrasocialiste dei nostri due compari sono appena cominciate. Perché siamo ormai ben oltre le tensioni di liquidità - nei cui confronti la Riserva federale è piuttosto ben attrezzata.È una crisi di solvibilità generalizzata, quella che si è impadronita del settore finanziario, ora che le perdite esorbitanti hanno intaccato in profondità le basi di capitali puliti. Un'imperativa frenesia di ricapitalizzazione si è annunciata fin da marzo, e, da Bear Stearns a Lehman, passando da Fannie-Freddie, tutti i momenti critici hanno avuto come origine un dubbio sulla capacità delle banche interessate di raccogliere capitali (6).Tuttavia, perché ci siano ricapitalizzazioni, bisogna che ci siano dei «ricapitalizzatori»! Ma non sono in molti ormai ad avere i mezzi per questo genere di sforzo: le banche consorelle lottano a loro volta per conservare il poco di capitale rimasto; i fondi sovrani (7), sui quali si è fatto molto conto, un po' troppo forse, hanno meditato sulle ultime delusioni: la loro sensazionale entrata in scena in marzo riposava sull'ipotesi che i prezzi degli attivi immobiliari e delle azioni avessero toccato il fondo - si sa quanto è successo poi, e le minusvalenze che ne sono risultate li hanno ormai convinti a pensarci due volte. Rimane... lo stato, il solo che possa fare il «lavoro», quando più nessuno vuole e può farlo.Per cui «Karl» Bernanke e «Vladimir Ilich» Paulson non hanno finito di soffrire. Il berretto con la stella rossa sta loro come le bretelle a un maiale, ma loro, almeno, hanno capito che devono tenerselo infilato in testa per tutto il tempo necessario, al contrario dei pazzi furiosi liberisti che reclamano il «lasciate che falliscano» e la morale della purga. C'è una sola lettura possibile per questo imperativo dell'abbigliamento, e un succulento paradosso vuole che un ex capo di Goldman Sachs debba farla sua: la finanza liberalizzata è strutturalmente di un'instabilità esplosiva; non solo è certa di scatenare catastrofi a ripetizione, ma è incapace di fronteggiarle con i suoi mezzi - ah! Le famose «soluzioni di mercato» alle quali si richiamava il comunicato europeo del 29 gennaio (leggere il riquadro)! Solo lo stato, con un gesto di pura sovranità, totalmente al di fuori del diritto comune, che si permetta l'impensabile - come nazionalizzare a vista pagando solo più tardi, captare unilateralmente tutti i dividendi - compresi quelli delle azioni che non detiene (!) - , può mettere un termine ai rendimenti crescenti di crollo che alimentano i meccanismi del divino mercato. Perciò: o il berretto o l'Apocalisse.E di preferenza il berretto, perché ecco l'alba radiosa che si annuncia sotto i nostri occhi: il convoglio dei subprime non è ancora completamente passato che già si palesa quello degli Alt-A mortgages. Intermedi tra i prime (standard) e i subprime, i crediti Alt-A fingono di aver chiesto una qualche informazione sulla situazione dei mutuatari, ma tollerano che si sia risposto in modo incompleto, o con alcuni «errori»: secondo uno studio di Mortgage Asset Research Institute, la quasi totalità dei dossier Alt-A (messi in piedi dagli intermediari per le banche) esagera i redditi dei mutuatari di almeno il 5%...e più della metà li sopravvaluta di più del 50%! Nella categoria Alt-A si distinguono i crediti detti opzione-Arm (Option Adjustable Rate Mortgages), che hanno la caratteristica di offrire al mutuatario diverse possibilità in materia di inizio dei pagamenti. Una di queste, particolarmente allettante, propone per i primi anni non solo di non cominciare a rimborsare il capitale, ma anche di non pagare la totalità dell'interesse - si arriva ad iniziare con tassi provvisori dell'1%, ai quali è difficile non cedere.Evidentemente, tutte queste facilitazioni danno luogo a una proroga per gli anni successivi, e il reset (il riaggiustamento del tasso) non può che essere più doloroso. Il mutuatario medio in opzione-Arm vede i suoi pagamenti aumentare di colpo del 63%. L'agenzia finanziaria Bloomberg valuta al 16% i ritardi di pagamento di più di due mesi sugli Alt-A emessi dal gennaio 2006. Queste inadempienze devono accelerare l'anno prossimo e durare fino al 2011, tenuto conto della durata del reset, che è da tre a cinque anni. Ancora una piccola cosa: c'erano 855 miliardi di dollari di subprime in giro, ce ne sono 1.000 miliardi di Alt-A...Fannie ne possiede o ne garantisce per 340 miliardi. Wachovia porta 122 miliardi di opzione-Arm. Countrywide, salvata dal fallimento da Bank of America (il salvatore di Merrill Lynch), 27 miliardi.WaMu (Washington Mutual), 53 miliardi, di cui il 13% vanno al reset l'anno prossimo; guarda un po'!, WaMu ha visto la sua valutazione Standard & Poor's abbassata a livello di junk bond - il più basso.(8) Venerati dogmi, nella pattumiera Wamu è una cassa di risparmio, il risparmio del pubblico. In tutta fretta e a prezzo stracciato, è appena stata venduta a JP Morgan.Da altre parti, alcuni money market funds (delle sicav monetarie), fino ad oggi considerati liquidi e sicuri come un conto corrente, non sono forse stati sommersi da domande di riscatto, dopo che i clienti hanno visto i loro beni dissolversi, a causa della completa perdita di valore di titoli Lehman, nei quali queste sicav si erano astutamente impegnate? L'assalto dei risparmiatori: ecco cosa renderebbe il quadro davvero completo...Senza neanche proseguire in questo scenario-catastrofe, ma a fortiori se lo si prende in considerazione, le necessità di ricapitalizzazione bancaria sono così importanti, così generalizzate, e sopraggiungono in un tale contesto di rifiuto a impegnarsi da parte di coloro che sono ancora a galla, che lo stato, non più solo prestatore, ma azionista e «ricapitalizzatore» in ultima istanza, fa fronte ad un impegno finanziario sempre meno sostenibile con i mezzi standard. Anche se, come è probabile, lo stato federale finirà tra breve col pagare i warrant (9), poi le azioni che gli conferiscono la proprietà di Aig; dopo i 200 miliardi di dollari per un'operazione simile per Fannie e Freddie, non potrà rinnovare troppo spesso queste elargizioni, perché i suoi mezzi sono limitati.Standard & Poor's stima in dieci punti di prodotto interno lordo (Pil) quello che potrebbe costargli complessivamente! Che ciò avvenga sotto forma di ricapitalizzazioni generalizzate o attraverso una gigantesca struttura di accantonamento che alleggerisca la finanza privata dei suoi attivi avariati, il problema è sempre lo stesso.Questi dieci punti di Pil saranno tirati fuori dalle tasche del contribuente americano - silurando quanto rimane di crescita? O, al contrario, li si lascerà gonfiare il deficit e il debito pubblico - col rischio di rendere ben presto infrequentabili dollaro e titoli del Tesoro, trasformando la crisi della finanza privata in crisi delle finanze pubbliche, addizionata di crisi monetaria?Ci sono solo pessime soluzioni, in ogni caso, se ci si attiene ai canoni usuali dell'ortodossia. È per questo che i nostri amici col berretto andranno fin dove sarà necessario andare per fare quello che deve essere fatto; è sempre per questo che i dogmi, stupidamente venerati da tanti convertiti, finiranno presto nelle pattumiere.Ricapitalizzazioni con emissioni monetarie, sequestri puri e semplici, controllo dei cambi, se le cose andassero male, non avremmo ancora visto niente. La storia procede per vie bizzarre. Apriamo bene gli occhi, stiamo entrando in territorio sconosciuto.

note:

* Economista, autore di Jusqu'à quand? L'éternel retour de la crise financière, Raisons d'agir, Parigi, in stampa a novembre 2008.

(1)È il principio numero uno del testo «quatre principes et neuf propositions pour en finir avec les crises financières», La pompe à phynance, http:// blog.mondediplo.net

(2) Non si tratta di un'esposizione netta perché gli impegni a comprare/pagare compensano degli impegni a vendere/ricevere.

(3)Office of the Comptroller of the Currency, New York, 30 settembre 2007.

(4)«Decisive inaction», The Financial Times, Londra, 11 settembre 2008.

(5)Tipo di crediti immobiliari concessi a mutuatari dalla solvibilità molto dubbia, quando non sconosciuti al sistema bancario.

(6)L'episodio Lehman è stato scatenato dall'annuncio del fallimento dei negoziati in vista di una partecipazione della banca di sviluppo coreana Kdb.

(7)Leggere Ibrahim Warde, «Fondi sovrani. Predatori, salvatori o abbindolati?», Le Monde diplomatique/il manifesto, maggio 2008.

(8)Negli ultimi giorni Wachovia è stata incorporata da Wells Fargo che l'ha sottratta a Morgan Stanley, mentre WaMu è finita in mano a JpMorgan, Ndt.

(9)I warrant sono opzioni, cioè diritti a comprare azioni.(Traduzione di G. P.)


Autore: Frédéric Lordon
Fonte: www.monde-diplomatique.it

martedì 2 dicembre 2008

Il presidente del mondo

Barack Obama è il presidente del mondo. Non nel senso, pessimo e impossibile, dell'imperatore di noi tutti. Ma in quello, realistico e positivo, dell'uomo che la stragrande maggioranza dell'umanità avrebbe voluto alla guida del più importante paese del mondo. Nelle elezioni planetarie virtuali via Internet, Obama è stato plebiscitato dappertutto: dalla Francia (94,5%) alla Cina (88%), dalla Germania (92,5%) all'India (97%), dalla Russia (88%) all'Iran (80%), per finire con il trionfo in Italia (92%). Miliardi di persone hanno soffiato nelle vele della barca di Obama. Gli americani lo sapevano, anzi lo sentivano. Come affermava Thomas Jefferson, americanizzando il cogito cartesiano: "I feel, therefore I am" - "sento dunque sono". I connazionali di Obama devono averlo sentito quel vento ben dentro la loro pelle, fino all'altro ieri piuttosto impermeabile alle opinioni di chi vivesse fuori dell'immenso, benedetto poligono a stelle e strisce.

Fino a quando appunto, sette anni fa, furono tragicamente risvegliati dall'illusione di aver bandito per sempre il Male dal mondo. Bush volle esorcizzare l'incubo scatenando il suo formidabile apparato della forza a caccia di mostri lontani. Con l'idea di tenerli a debita distanza dalle case americane, inchiodandoli nelle loro terre come si spera che gli insetti nocivi s'incollino alla carta moschicida. Certo, l'11 settembre non si è ripetuto. Ma il prezzo per la svolta militarista e securitaria non è espresso solo dalla voragine nei conti pubblici e privati, quanto soprattutto dalla drastica caduta d'immagine dell'America nel mondo. E dunque da una corrosiva crisi di autostima. Da cui solo dopo la magica notte del 4 novembre gli americani cominciano a riprendersi.

Se Obama ha vinto, è anche perché gli americani hanno ascoltato le voci del mondo. Non per corrività o per vocazione internazionalista. Per sano spirito di conservazione. Per egoismo. Perché hanno capito che la sicurezza degli Stati Uniti è protetta dalla simpatia o almeno dal rispetto altrui meglio che da qualsiasi barriera. Quanto più Bush erigeva muri fisici e virtuali a protezione del territorio nazionale, mentre scatenava le campagne d'Afghanistan e d'Iraq senza fissarne limiti e traguardi, tanto più molti americani si sentivano paradossalmente meno protetti. Ci sono voluti anni, ma la maggioranza dei cittadini statunitensi ha capito che il loro governo li aveva ficcati in un vicolo cieco. Al termine del quale non c'era solo l'umiliazione dei soldati - migliaia dei quali hanno pagato con la vita - ma la perdita di fiducia del mondo nell'America. E alla lunga, degli americani in loro stessi.

L'ultimo crollo, quello del Muro di Manhattan, non è stato che il riflesso finanziario della crisi di credibilità degli Stati Uniti. Senza fiducia non c'è finanza che tenga. E prima o poi il morbo traligna nell'economia, mina l'ordine sociale, ferisce lo smisurato orgoglio nazionale di un paese che venera come una Chiesa la patria e i suoi simboli.

L'America ha ascoltato il mondo. Presto il mondo ascolterà la nuova America di Obama. Inevitabilmente, una buona quota di coloro che oggi inneggiano al leader nero resteranno delusi. Non solo perché sono troppi, e nemmeno Superman potrebbe servire i loro contrastanti interessi. Ma perché Barack Obama, innalzato alla Casa Bianca anche grazie al resto del mondo, deve preoccuparsi anzitutto del suo popolo. In questo senso no, non è il capo della Terra. Deve corrispondere alle attese dei suoi elettori effettivi, dai quali ambirà ad essere riconfermato fra quattro anni. Non avrà tempo né forze per quelle dei suoi supporter elettronici sparsi nel pianeta. Di più: i suoi elettori reali pretendono che rimetta subito ordine nella casa devastata dalle politiche di Bush. L'economia domestica, anzitutto. Il resto può attendere.

Obama avrà bisogno di ogni risorsa disponibile, a cominciare da quelle degli "alleati e amici", per raddrizzare la corazzata a stelle e strisce, pericolosamente inclinata su un fianco. Sul fronte internazionale, vuol dire più soldi e più soldati atlantici - italiani inclusi - a combattere con gli americani nelle guerre del dopo-11 settembre. A partire dall'Afghanistan, dove probabilmente Obama tenterà di riprodurre l'"effetto Petraeus": rinforzi sul terreno e trattative con i "taliban buoni" e altri tagliagole per evitare una sconfitta che Stati Uniti e Nato non possono permettersi.

Certo, dall'autismo geopolitico di Bush e Cheney, Obama e Biden vorranno passare a un "multilateralismo" d'impronta americana. Con il prestigio e l'irradiamento simbolico di cui nessun altro presidente degli Stati Uniti ha mai goduto, il nuovo leader cercherà risorse altrui per servire gli interessi del suo paese. Se poi tali interessi coincideranno con quelli degli amici, tanto meglio. Se no, tanto peggio per gli altri. Anche per chi oggi stravede per lui, o finge di farlo.

Il presidente eletto sta per ereditare un paese malato. Solo un senso di disperazione spiega come una notevole parte dei conservatori abbia votato per un presidente sospettato di pericolose inclinazioni sinistrorse, quando non di aver flirtato con gli estremisti. Obama era davvero l'ultima speranza dell'America. Non può permettersi di disperderla. La sua gente, tutta, non glielo perdonerebbe. E' il destino dei grandi visionari, che suscitano aspettative formidabili. Alcuni di loro diventano anche grandi leader. Calibrando utopia e realismo, producendo fatti ed esaltandoli con il tocco carismatico dei re taumaturghi. Se ci riuscirà, Obama non sarà solo un eroe nazionale. Si confermerà quell'icona planetaria che è già diventato nei cuori degli amici dell'America, e forse anche di alcuni nemici..

Autore: Lucio Caracciolo
Fonte: www.limesonline.it