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mercoledì 10 dicembre 2008

Il 44° presidente degli Stati Uniti

La vittoria di Barack Hussein Obama è stata una sorpresa per coloro che non hanno seguito con attenzione e mente libera le trasformazioni della società americana. Per coloro, soprattutto, che non sanno leggere la democrazia se non come un sistema di regole e procedure di decisione politica, che non sanno cioè vedere che un lungo e abituale uso di queste procedure e regole comporta anche una trasformazione dei comportamenti pubblici di tutti i cittadini. La democrazia è un ordine politico che si regge sull’apprendimento, nel quale cioè è possibile avere una accumulazione di esperienza che si deposita nella psicologia collettiva e che agisce sulla volontà e il giudizio politico e morale dei singoli cittadini come abito mentale o seconda natura. Su questa possibilità di apprendimento individuale e collettivo riposa la possibilità che la democrazia duri nel tempo. Come straordinario esempio di apprendimento individuale e collettivo, la democrazia è opposta al populismo, il quale comporta il seppellimento del giudizio individuale in quello collettivo. Il fondamento individuale della democrazia è per tanto alla base dell’originalità di questo sistema che è collettivo senza essere l’espressione di una massa indistinta e anonima. Questa visione della democrazia è essenziale per comprendere la vittoria di Obama.
Obama è il primo presidente di colore in un paese che è stato segnato indelebilmente dalla Guerra Civile, voluta dagli Stati del sud (i Confederati) con l’intenzione espressa di proteggere il loro sistema economico e sociale fondato sulla schiavitù. Due mondi si sono scontrati nella Guerra Civile del 1861-65: quello gerarchico e nostalgico dell’aristocrazia del vecchio continente, e quello industriale, capitalista ed egualitario, certamente nei costumi e nelle leggi. La lotta è stata tra una democrazia aristocratica dove eguali potevano essere solo gli eguali e una democrazia individualistica dove eguali sarebbero stati tutti coloro che accettavano il patto costituzionale. Non è stata per nulla una lotta semplice, né soprattutto una lotta che si è conclusa con la vittoria definitiva di Abraham Lincoln e dell’Unione. Perché il 14° emendamento (inteso ad assicurare i diritti civili a quelli che erano stati schiavi fino ad allora) e il 15° emendamento (che proibisce a tutti gli stati dell’Unione di conculcare il diritto di voto per ragioni di razza) non hanno trovato attuazione piena e coerente fino al famoso Voting Act del 1965. Il Voting Act, poi esteso e perfezionato nel 1970, 1975 e 1982, è considerato a ragione come il vero successo della stagione delle lotte per i diritti civili perché codifica e quindi attua il 15° emendamento imponendo a tutti gli Stati alcuni specifici obblighi per rendere il diritto di voto effettivo.
Le regole elettorali, che dipendono dalle decisioni dei singoli Stati, hanno per un secolo ostacolato l’applicazione di quei due emendamenti conquistati con la Guerra Civile. La lotta dei neri contro la segregazione razziale negli Stati del sud ha segnato l’inizio della liberazione dei neri da un dominio gerarchico dei bianchi che nemmeno una guerra civile era riuscita a cancellare. La marcia della eguaglianza democratica è stata dunque (ed è) lunga, accidentata e mai conclusa. Obama è il segno di questa complessità. Egli rappresenta davvero al meglio la storia difficile della democrazia americana: perché fino all’ultimo gli osservatori politici pensavano che il razzismo non sarebbe stato facilmente sconfitto e che probabilmente nemmeno i sondaggi erano veritieri. L’ombra del razzismo si è quindi allungata su queste elezioni – il segno del passato era dietro quei timori. Ma il razzismo non ha avuto la maggioranza ed è stato scalzato da passioni o interessi più pressanti. Primo fra tutti l’orgoglio dell’eccezionalità americana: Obama è stato il più americano tra i due candidati, perché il segno tangibile che l’America è davvero capace di alimentare il sogno che milioni coltivano nel mondo di potere essere riscattati dalla miseria e dalla discriminazione, di essere semplicemente se stessi e liberi. Questo è stato il messaggio di Obama: non un messaggio da “politica della differenza” ma un messaggio nazionale di eguaglianza delle opportunità. Egli è quindi il più esemplare segno dell’eccezionalità americana. Inoltre, è un segno della grandezza della democrazia, perché ha dimostrato che con le regole democratiche si può conquistare un traguardo che in altri regimi richiederebbe senz’altro una rivoluzione. La democrazia riesce a correggere se stessa sovvertendo pacificamente l’ordine esistente. La sua natura è davvero rivoluzionaria quindi, proprio perché senza necessità di una rivoluzione. E poi la tolleranza: uno dei più bei comizi di Obama – un testo che insegno nel mio corso sulla democrazia – ha fatto dell’accettazione e del rispetto dell’altro il tema cruciale dell’eguaglianza democratica. Tolleranza è anzi una parola non giusta perché il diverso non deve essere tollerato affinché sia trattato come un eguale, ma invece riconosciuto e rispettato come un sé unico. Infine, la grande e in America consueta condivisione del patto costituzionale. Contrariamente a quanto succede nel nostro paese, dove la costituzione non è stata sottoscritta da una parte del corpo politico (certamente dai padri di un partito che è oggi al governo), negli Stati Uniti la Dichiarazione di Indipendenza, la Costituzione, il Bill of Rights sono un patrimonio di tutti, e di tutte le generazioni che si sono succedute dal 1787 e che si aggiungono giorno per giorno, con la naturalizzazione di sempre nuovi cittadini. Nessuno pensa che siccome è così vecchia, la legge fondamentale sia destituita di valore o abbia necessità di revisione e addirittura di manomissione. La lunga durata della legge fondamentale è prova della sua giovinezza, non della sua vecchiaia, perché sono i cittadini che vivono “qui e ora” che la convalidano e la legittimano rispettandola. E a quella legge fondamentale tutti indistintamente, conservatori e democratici, si appellano come a un patrimonio comune, il Dna del paese.
Eppure una costituzione significa e anzi naturalmente implica che ci sono diverse interpretazioni, poiché le regole si fanno proprio perché si presumono disaccordi e dissensi. E dietro queste diverse interpretazioni si cela l’aspirazione politica o (insisto a usare questa parola) ideologica: pro o contro l’eguaglianza, pro o contro il privilegio. Obama ha ottenuto una larga maggioranza, non però l’unanimità. È il presidente di tutti gli americani, ma non tutti condividono il suo messaggio di eguaglianza. L’eguaglianza delle opportunità che a ogni comizio ha messo alla base della sua straordinaria e ragionata retorica è il segno che è proprio su questa frontiera che oggi si combatte la battaglia politica della cittadinanza democratica. Forse per la consapevolezza che le risorse sono davvero scarse, forse perché godere dei privilegi piace comunque, il fatto è che l’ottimismo con il quale la democrazia si è consolidata negli anni della ricostruzione del secondo dopoguerra ha lasciato il posto a un saggio pessimismo sulle grandi difficoltà che essa ha di mantenere fede alle proprie promesse.
Obama rappresenta al meglio il pessimismo della ragione perché egli sa molto bene, e lo ha detto anche nel discorso di Chicago la sera della vittoria, che ci vorranno anni (forse più di un mandato, come già a volersi ricandidare) per poter cercare di raddrizzare una condizione di disagio e disuguaglianza che è diventata preoccupante perché si sta allargando a macchia d’olio. La forza della volontà gli viene dalla storia sua e del suo paese. Perché è vero che l’America è nata con questo ragionato obiettivo fin da quando i primi europei cenciosi si stabilirono sulle coste del New England: l’obiettivo di non essere asserviti, di vivere con umana dignità e non subire dominio e oltraggio da nessuno. Obama è il segno di questa etica, di questa idea di eguaglianza e rispetto dell’individuo che ha vinto proprio in quella parte della società americana che più ha subito violenza, ingiustizia e oltraggio. La schiavitù è l’opposto estremo dell’eguaglianza democratica. Non si può non sottolineare il fatto che Obama ha conquistato la Virginia, dove ha preso il via la Guerra Civile e dove si è annidata la contraddizione più stridente nella quale si è dibattuta la società americana: perché la Virginia è lo stato di Thomas Jefferson, il padre spirituale dell’eguaglianza e della ragione illuministica e però anche il proprietario di schiavi che sinceramente non pensava ai neri come eguali. La democrazia americana si è sviluppata negli interstizi di questa contraddizione, e ora Obama ha, primo democratico, conquistato la Virginia, lui che viene dall’Illinois, lo stato di Abraham Lincoln. La liberazione degli schiavi ha celebrato il sogno americano con la vittoria di Obama. Un secolo e mezzo di lotte cruente e durissima sofferenza che ha forgiato l’ethos della cultura “liberal” – quella dei diritti e delle eguali opportunità. I suoi nemici sono facilmente individuabili e sono tutt’altro che in ritirata, qui negli Stati Uniti (dove la vittoria di Obama è l’inizio, non la fine di un percorso difficile) e nei nostri paesi così poco rispettosi dell’eguaglianza democratica, così manipolati da venditori di fumo che devono alle facili e per nulla pari opportunità molta della loro fortuna e della nostra sfortuna.


Autrice: Nadia Urbinati
Fonte: www.lostraniero.net

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