Negli anni Trenta del secolo scorso la borghesia americana affronta la Grande Crisi con lo spirito e la tenacia del manutentore che, constatato il pessimo funzionamento della macchina, cerca di ripararne i guasti e correggerne i difetti. Lo fa introducendo grandi riforme di sistema e reprimendo, anche con la violenza, sindacati e sinistra organizzata che sembravano volersi porre fuori o contro il sistema. Le borghesie europee, incalzate da un movimento operaio molto più forte e politicizzato di quello americano e a loro volta intrise di ideologie classiste e nazionaliste, pensano di trovare la soluzione nel nazifascismo, un capitalismo di Stato Dispotico non molto diverso da quello sovietico. Per fortuna vi riescono soltanto in Germania, Italia e Spagna. La conclusione della Seconda guerra mondiale spazza via il nazifascismo e i nazionalismi correlati e apre la strada all’internazionalizzazione prima e alla globalizzazione poi. Infine, nel 1989, la caduta del Muro di Berlino fa cadere le ultime illusioni palingenetiche sul comunismo. Da quel momento la crisi delle ideologie politiche del Novecento non è più un assunto teorico, è un fatto. Ma ci sono voluti quasi vent’anni perché fosse palese a tutti che il “Secolo Breve”, come lo chiama EricJ.Hobsbawm, era finito. Le controprove più recenti sono due: il modo in cui è stata affrontata e gestita la crisi innescata dai mutui subprime e l’elezione di Barack Obama a presidente degli Stati Uniti.
La crisi. È opinione largamente prevalente che non venga da un modello di sviluppo sbagliato in sé, ma dalle sue degenerazioni. George Soros, che certo non può essere sospettato di simpatie comuniste, sostiene che il capitalismo produce fisiologicamente bolle speculative che allontanano i prezzi dai valori reali sottostanti. Ma, aggiunge, occorre vigilare e porre limiti, altrimenti il fisiologico diventa patologico. Se siamo qui a parlarne è perché, evidentemente, non hanno funzionato né i limiti, cioè le regole, né i controlli, cioè le autorità. In primis quelle americane. Ma una volta trovatisi con le spalle al muro, gli americani hanno reagito con grande tempestività e pragmatismo, come avevano fatto un secolo prima. Hanno nazionalizzato alcune banche e somministrato robuste iniezioni di capitale pubblico all’economia. Una risposta “sbalorditiva” se vista con le lenti delle vecchie ideologie. Secondo le quali, confondendo democrazia e liberismo, quest’ultimo sarebbe un fine in sé, non il modo più efficace per far funzionare il capitalismo in condizioni “normali”. Lo stupore ha raggiunto l’apice quando, sulla scia degli Usa, anche l’Inghilterra del laburista Gordon Brown, la Francia del liberista Sarkozy e la Germania della democristianissima Angela Merkel si sono messe a fare altrettanto. Non sarebbe mai potuto succedere prima della caduta del muro di Berlino. A parte qualche piccola sbavatura – la ruspante candidata alla vicepresidenza Usa, le frange comuniste residuali in Europa, alcune componenti di destra improvvisata in Italia – a nessuno è venuto in mente di accusare i leader del mondo occidentale di voler abbattere il capitalismo. Men che meno è venuto in mente a russi e cinesi, che pure in materia vantano una discreta expertise. O forse proprio per quello.
Obama. I blue collar americani e i chicano avrebbero voluto Hillary Clinton, non Barack Obama. Lui non si è scoraggiato né intenerito e ha tirato dritto per la sua strada proponendo una terapia che in molti punti poteva essere condivisa anche dai repubblicani. Di suo ci ha aggiunto però: la messa al bando di qualunque discriminazione basate su razza, etnia e religione; l’appello alla partecipazione dei giovani; il richiamo ai valori di libertà costitutivi della società americana; la presa di distanza dalle lobby economiche che premono su Washington. Più Internet. Tutta merce non catalogabile, ancora una volta, con le categorie novecentesche di destra e sinistra, conservatori e progressisti, statalisti e liberisti eccetera. Obama ha fatto invecchiare di colpo il background culturale e politico che fa da mastice alla classi dirigente di mezzo mondo. Non è soltanto il primo leader di una globalizzazione che ha assoluto bisogno, come si dice, di governance, è anche e soprattutto il primo leader post-ideologico del nuovo Millennio. In un certo senso lo sono anche i post-comunisti Vladimir Putin e Hu Jntao, ma c’è una differenza sostanziale: Obama è stato selezionato prima ed eletto poi in maniera tangibilmente democratica, gli altri sono stati semplicemente eletti. Anche questo fa di lui l’unico leader spendibile a livello globale. La fine delle ideologie del Novecento libera il campo da scorie e macerie inutilizzabili ma non è ancora la soluzione. Può rilanciare il meccanismo inceppato della globalizzazione su basi più razionali (meno debito e più capitale) e più eque (maggiore attenzione alle persone e ai loro bisogni). Può essere la palla di neve che diventa valanga. Ma non può abolire le grandi differenze – di ricchezza, di conoscenza, di diritti – che esistono nel mondo globalizzato. La storia continua. Alle vecchie ideologie se ne vanno sostituendo altre, magari prese a prestito dalle religioni, come dimostrano soprattutto il fondamentalismo islamico, ma anche quello induista (si veda la caccia ai cristiani in Orissa) e cattolico-cristiano (si pensi alla pretesa di ridurre l’etica del nostro tempo a una sola, la loro). Al vecchio nazionalismo espansionista e militarista, si vanno sostituendo regionalismi autoreferenziali, su base etnica, à la carte. Se la vittoria di Obama non è la soluzione, tuttavia indica un metodo. Quello che cerca di coniugare principi e pragmatismo, visione del futuro e realismo nel presente, diritti e condizioni materiali di esistenza, etica pubblica e morale privata. Un punto a favore della laicità contro il dogmatismo e le superstizioni, vecchie e nuove.
Autore: Vittorio Borelli
Fonte: www.eastonline.it
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sabato 20 dicembre 2008
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