La “guerra dei cinque giorni”, come è stata definita quella tra Russia e Georgia dello scorso agosto, non è necessariamente il prologo di una nuova Guerra Fredda. Potrebbe anzi essere l’inizio di una fase in cui le democrazie occidentali avranno un più realistico apprezzamento della politica russa e del modo in cui convivere con il Paese di Vladimir Putin e Dmitrij Medvedev. Ma questo sarà possibile soltanto quando avranno rinunciato ad alcuni dei luoghi comuni con cui la Russia è stata generalmente giudicata negli ultimi anni. Non esiste un sipario di ferro, ma una frontiera che separa percezioni completamente diverse della realtà internazionale e degli eventi degli ultimi anni, dalla rivoluzione delle rose in Georgia nel dicembre 2003 all’indipendenza del Kosovo negli scorsi mesi.
Conosciamo bene il punto di vista dell’Occidente sul diritto dei popoli alla libertà e le deprecabili tendenze autoritarie dello Stato russo. Ma non ci siamo chiesti quali fossero in questi anni le reazioni e i sentimenti della Russia. Non è sorprendente. Tutte le politiche estere hanno una memoria selettiva e ricordano soltanto i precedenti utili ai loro interessi. Ma non è realistico ignorare gli interessi degli altri e dimenticare, per esempio, le conversazioni fra Bush senior a Gorbaciov, durante le trattative per la riunificazione tedesca, quando il presidente americano promise che la Nato non si sarebbe estesa ai Paesi dell’ex blocco sovietico. Clinton dette le stesse assicurazioni, ma cambiò avviso e mise in cantiere, verso la metà degli anni Novanta, l’allargamento dell’organizzazione alla Polonia, all’Ungheria e alla Repubblica Ceca. Ebbe luogo nel 1999, l’anno in cui la Russia era alle prese con la crisi finanziaria del 1998, il passaggio dei poteri al vertice del Cremlino e una nuova guerra cecena. Putin ingoiò il rospo anche perché la collaborazione russoamericana durante la guerra afghana del 2001 e il vertice Nato-Russia a Pratica di Mare nel luglio dell’anno seguente gli dettero la sensazione che i punti d’accordo fossero più numerosi dei disaccordi. Ma le due rivoluzioni colorate in Georgia e Ucraina dimostrarono, agli occhi del russi, che l’America non si sarebbe fermata ai confini orientali della Polonia.
Da allora la Nato si è allargata sino a comprendere la Bulgaria (sede di una base americana), la Romania e soprattutto le tre repubbliche del Baltico, vale a dire tre Paesi che sono lungamente appartenuti allo Stato russo. Nello stesso periodo gli Stati Uniti hanno cominciato a negoziare con la Polonia e la Repubblica Ceca l’installazione di basi antimissilistiche nei loro territori. Washington sostiene che sono destinate a proteggere il continente americano dai missili iraniani, ma quando Putin propose, come alternativa, la creazione di una base russo-americana in Azerbaigian, ai confini con l’Iran, gli americani rifiutarono. È davvero sorprendente che la Russia si senta accerchiata e consideri l’ingresso nella Nato di Ucraina e Georgia come una minaccia? A coloro per cui Mosca è vittima di una storica, ossessiva sindrome dell’accerchiamento, i russi ricordano che Leningrado, nell’anni della Guerra Fredda distava poco meno di 2000 chilometri dal più vicino Paese della Nato. Oggi la distanza fra Pietroburgo e l’Estonia è di 160 chilometri. Occorre sgombrare il campo da altri luoghi comuni. La reazione russa all’attacco georgiano della notte fra il 7 e l’8 agosto è stata brusca e decisa.
Ma non meno sproporzionata dei 35 giorni durante i quali Israele ha bombardato il Libano nel 2006 e dei 78 giorni durante i quali la Nato ha bombardato la Serbia nel 1999. È vero che i russi, in Georgia, hanno immediatamente esteso l’area dei combattimenti e occupato il porto di Poti. Ma poteva forse lo stato maggiore russo escludere del tutto la possibilità che gli Stati Uniti usassero i porti sul Mar Nero per inviare materiale militare alle forze armate georgiane? Vi erano in Georgia, all’inizio del conflitto, circa 130 militari americani che addestravano i georgiani all’uso delle armi fornite dall’America negli anni precedenti. Quando combatte, un esercito non può limitarsi a vincere una battaglia: deve vincere la guerra. Esiste infine un luogo comune che concerne in particolare l’Europa.
I sostenitori della linea dura affermano che la linea “molle” dell’Unione europea è stata determinata dall’importanza delle forniture energetiche russe. Il petrolio ha sempre avuto una parte importante nella formulazione delle politiche dell’Europa comunitaria. Ma i rapporti dei Bush con la famiglia dei Saud e la sosta del vicepresidente americano Dick Cheney a Baku durante il suo viaggio nel Caucaso, dimostrano che il “vizio” non è soltanto europeo. Coloro che puntano il dito sul petrolio e sul gas finiscono per rimpicciolire e svilire i rapporti che Russia e l’Ue hanno interesse a creare. Viviamo nello stesso continente e siamo straordinariamente complementari. La Russia può darci un grande mercato e gli idrocarburi di cui abbiamo bisogno per la nostra economia; l’Europa può dare alla Russia i suoi capitali, la sua tecnologia, la sua cultura aziendale. Un accordo di partenariato, come quello che si è cominciato a discutere negli scorsi mesi a Bruxelles, puo creare una grande comunità d’interessi, utile all’economia e alla pace. Se gli Stati Uniti hanno altri interessi e ambizioni, l’Unione Europea ha il diritto di ricordare che le sue esigenze e la sua politica sono diverse da quelle di Washington.
Autore: Sergio Romano
Fonte: www.eastonline.it
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giovedì 11 dicembre 2008
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