
Mentre i partiti creano le proprie liste in vista delle elezioni del prossimo giugno, il Parlamento europeo rimane ancora un'istituzione sconosciuta. Tuttavia, la legislazione della Corte di giustizia delle Comunità europee, che legalizza il dumping sociale, alla fine del 2008, ha provocato tra i deputati un dibattito rivelatore. Mentre la crisi economica si amplifica, i testi adottati rivelano le contraddizioni e i limiti di un'assemblea che dovrebbe essere espressione dei popoli dell'Unione.
Diverse settimane dopo i fatti, sul volto di Jan Andersson, presidente della commissione per il lavoro e gli affari sociali del Parlamento europeo, si legge ancora lo stupore. In qualche mese, tra novembre 2007 e giugno 2008, la Corte di giustizia delle Comunità europee (Cgce) ha pronunciato quattro sentenze in cui si afferma il primato dei diritti delle imprese su quelli dei lavoratori.
Nel caso Viking, un armatore finlandese voleva trasferire una nave sotto la bandiera estone per sottrarsi al contratto collettivo del paese di origine. Nel caso Laval, un sindacato svedese, bloccando i lavori di un'impresa edile, aveva tentato di imporre a un'impresa di servizi lettone la firma del contratto collettivo. Nel caso Rüffert, una società polacca, con sede in Bassa Sassonia, versava dei compensi inferiori al salario minimo locale. Infine, il 18 giugno 2008, la Cgce è stata incalzata dalla Commissione europea, che giudicava eccessivi i vincoli imposti dal Lussemburgo a un'impresa di servizi straniera (si legga il riquadro in basso). In tutti i casi, la Cgce ha condannato le azioni sindacali e ha chiesto alle autorità pubbliche di limitare le norme sociali imposte alle imprese delocalizzate. Per la Corte, il diritto del lavoro e i movimenti dei lavoratori non devono ostacolare in maniera «sproporzionata» la libertà di stabilimento delle imprese (articolo 43 del Trattato di Roma) e la libera prestazione dei servizi (articolo 49) all'interno del Mercato comune.
Il socialista svedese, Andersson non si sarebbe aspettato una simile interpretazione dei testi europei. Preoccupato della legittimazione così concessa al dumping sociale, teme che nuove sentenze possano andare nella stessa direzione. Il 22 ottobre 2008, il Parlamento ha adottato, sulla base di un «rapporto di iniziativa» di questo deputato, una risoluzione legislativa che contraddice apertamente la legislazione della Cgce. Fatto rarissimo nell'universo ovattato di questa istituzione, appena disturbato dai gruppi di turisti e dai bambini in gita scolastica. Un evidente vuoto giuridico Per i deputati, le «libertà economiche non possono essere interpretate in maniera tale da accordare alle imprese il diritto di sottrarsi o di aggirare le leggi e le pratiche nazionali in campo sociale».
I deputati precisano che, contrariamente all'interpretazione restrittiva fornita dai giudici, la direttiva del 16 dicembre 1996 sul distacco dei lavoratori, regolatrice dei diritti dei lavoratori assunti da imprese che si spostano all'interno del Mercato comune, decreta dei minimi che i governi e i partner sociali possono integrare con condizioni «più favorevoli» per i lavoratori. Questa risoluzione, pur non essendo in sé particolarmente rilevante, costituisce una pressione politica sugli stati membri e sulla Commissione, ai quali i deputati chiedono di adottare le misure necessarie al chiarimento del diritto comunitario. Fornisce l'opinione dell'assemblea su una questione di principio - i diritti delle imprese non prevalgono su quelli dei partner sociali - e auspica l'adozione di questa linea sulle future direttive. Adottata a larga maggioranza (quattrocentosettantaquattro voti contro novantatre astensioni), ha conferito al Parlamento un'immagine di difensore dell'Europa sociale, rafforzata, il 6 novembre 2008, dall'opposizione all'allungamento del tempo di lavoro da quarantotto a settanta ore settimanali. Sindacati e associazioni hanno favorevolmente accolto il «messaggio molto fermo» rivolto dai deputati agli stati membri e alla Commissione. Se la dimensione sociale dei testi adottati dal Parlamento non pone alcun dubbio, i dibattiti e le reazioni alle sentenze della Cgce rivelano una realtà più contrastata. Appoggiandosi su articoli «storici» - gli articoli 43 e 49 del trattato di Roma che fondano la libera concorrenza nel Mercato comune sono presenti dalle origini, alleggeriti tardivamente da disposizioni sociali, molto imprecise - , senza volerlo, la Cgce ha posto la questione, se non sulla natura della costruzione europea, quantomeno sulla sua logica. Allo stesso tempo, ha rivelato la fragilità della posizione istituzionale del Parlamento e la sua immaturità politica. La Cgce ha approfittato delle lacune della legislazione comunitaria per dare un'interpretazione contraria ai pareri dei parlamentari.
La socialista francese Françoise Castex ricorda, inoltre, che, all'epoca della sua adozione del 1996, la direttiva sul distacco dei lavoratori era stata presentata come un miglioramento delle loro condizioni.
Ora, i giudici l'hanno modificata in strumento al servizio della libertà di stabilimento delle imprese. Per Andersson, «la Corte non segue le discussioni parlamentari. Dovrebbe ispirarsi ai cambiamenti politici per determinare l'intenzione del legislatore». Castex si mostra più realista parlando di una «politica dall'evidente vuoto giuridico» dei deputati che lascia un ampio margine di manovra ai giudici nel quadro dei trattati europei strutturalmente liberali. E ricorda che, in seguito alla polemica suscitata dalla direttiva Bolkestein, i deputati europei avevano rimosso dal testo il principio di paese d'origine, senza però affrontare la questione del diritto applicabile...
Finora, la potenza della Cgce non sembrava disturbare particolarmente i deputati. «Finché la legislazione è rimasta sul vago, i rappresentanti, soprattutto i tedeschi e gli inglesi, si affidavano ai giudici perché la interpretassero», racconta Castex. Gli scandinavi e i tedeschi sono ancora più «scioccati» dalle sentenze della Cgce, dal momento che contemporaneamente scoprono, attraverso due giudizi che li riguardano direttamente (si legga il riquadro), la fragilità del loro sistema contrattuale nel grande mercato interno. Inoltre, questi giudizi arrivano proprio quando nell'Unione si stanno moltiplicando i piani sociali e la crisi economica annuncia nuovi conflitti tra sindacati e imprese. L'atteggiamento timido dei deputati è tanto più sorprendente visto che gli alti magistrati assolvono nell'Unione una missione - creare il diritto - che normalmente appartiene a istanze elette o controllabili democraticamente. Nessuno di loro sembra contestare questo esorbitante potere, che mette l'Europa sotto il regime della giurisprudenza, e non del diritto romano.
Il Parlamento è l'istituzione debole del sistema comunitario. Non ha le competenze per proporre delle direttive o dei regolamenti: può solo chiedere alla Commissione, che detiene l'iniziativa delle «leggi», di farlo. Ma Bruxelles rimane libera di dar seguito o no alla domanda dei deputati. È così che, il 21 gennaio 2009, l'esecutivo europeo ha rifiutato il loro appello a prendere delle misure giuridiche di fronte alle sentenze della Cgce, non «vedendone la necessità, in questa fase».
All'altro estremo della catena decisionale, il Parlamento deve negoziare il voto finale dei testi con il Consiglio dell'Unione europea (i ministri dei Ventisette), nel quadro della procedura di codecisione.
Se non si raggiunge un accordo tra le due istituzioni, i deputati si vedono costretti a respingere il testo, senza poterne imporre un altro. Castex sottolinea che, non solo la Commissione propone delle «leggi» ultraliberali ma, «quando il Parlamento si oppone, o adotta emendamenti troppo concreti, torna alla carica, qualche mese dopo, con un testo che va nella stessa direzione». Nel caso dei giudizi contestati dalla Corte europea, dal 18 dicembre 2008, i ministri hanno fatto sapere che una modifica della legislazione non sembrava loro «appropriata».
Per Andersson, non bisogna tuttavia sottovalutare il potere di contrattazione acquisito dal Parlamento. «Tutto ha a che fare con la politica», sostiene, ricordando che l'assemblea si pronuncerà sulla composizione della Commissione, proposta dagli stati membri dopo le elezioni del giugno prossimo. «È uno strumento di pressione reale» che deve, secondo lui, essere sostenuto da un'azione esercitata sui governi in ogni paese. Si augura di vedere un rafforzamento dei poteri affidati del Parlamento.
Tuttavia, per trovare veramente giustificazione, un simile rafforzamento implicherebbe una reale volontà da parte di questa istituzione di mettere in tavola i rapporti di forza sulle questioni di fondo. Ma le opposizioni che emergono appaiono evanescenti. Così, in occasione delle discussioni sulle sentenze della Cgce, il Parlamento ha espresso più il suo spirito di consenso che non la sua volontà di funzionare come istanza politica rappresentativa. La contrapposizione classica tra destra e sinistra è parsa quasi irrilevante. La maggior parte dei partiti, compreso il Partito popolare europeo (Ppe, democratico-cristiano) ha contribuito all'adozione della risoluzione del 22 ottobre 2008, contraddicendo la Corte. Il presidente del gruppo del Ppe, Joseph Daul, si è così pronunciato «per una libera circolazione dei servizi senza dumping sociale». Lo stesso vale per l'Alleanza dei democratici e liberali d'Europa (Adle, democratico-cristiana). In sostanza, il Ppe (duecentottantasei rappresentanti) e il Partito socialista europeo (duecentodiciassette rappresentanti) dominano l'assemblea (settecentottantacinque membri) in alternanza, ed è ormai normale che le loro voci si confondano. Sono inoltre accusati di spartirsi il potere, compresi i posti di presidente o di membri dell'esecutivo, a scapito delle altre formazioni. Hélène Flautre, deputata dei Verdi - Alleanza libera europea (Ale), denuncia la «tendenza crescente del Parlamento europeo a lasciarsi fagocitare dai due grandi gruppi».
Pervenche Berès, deputata socialista francese, non si nasconde: «La linea di separazione fluttua in funzione degli argomenti trattati.
Sulle questioni riguardanti la società, sono frequenti le alleanze con la Sinistra unitaria europea - Sinistra verde nordica (Guengl), che unisce partiti di sinistra, prevalentemente comunisti o ex-comunisti, oltre al gruppo dei Verdi - Ale ma anche il gruppo dei liberali (Adle).
Con loro, il Pse riveste pienamente il ruolo di opposizione di fronte alla destra maggioritaria. Eppure, queste alleanze non permettono sempre al Pse di formare una maggioranza: quando si affrontano temi portanti della legislazione, il Pse cerca spesso di raggiungere un accordo con il Ppe».
La lettura destra-sinistra delle decisioni del parlamento sembra quindi illusoria e la costante ricomposizione dei gruppi, a ogni elezione, ogni cinque anni, dimostra d'altronde che non sono stati stabiliti chiari raggruppamenti politici ideologici. Rappresentativa di questo spirito di «compromesso», la risoluzione antidumping sociale del 22 ottobre «si felicita del trattato di Lisbona» che pure riprende tali e quali gli articoli 43 e 49 del trattato di Roma, su cui la Cgce si è basata per stabilire una gerarchia tra i diritti delle imprese e quelli dei lavoratori. Nello stesso modo, «incoraggia attivamente una competitività fondata sulla conoscenza e l'innovazione, come previsto dalla strategia di Lisbona» del marzo 2000, fornendo un kit di montaggio per il neoliberismo all'ultimo grido, destinato agli stati membri. Svanisce così la posizione del Parlamento come «baluardo» dei diritti sociali. L'entusiasmo dei deputati per il trattato di Lisbona è tale che ne fanno uno dei fondamenti della loro risoluzione, prima ancora che questo entri in vigore. Uno strappo al diritto e alla democrazia, cui sono solite la Commissione di Bruxelles e la stessa Cgce. Trattati intoccabili La socialdemocrazia europea resta impregnata di liberismo economico.
Nel suo stipato ufficio di Bruxelles, Andersson ci aveva spiegato il suo attaccamento all'economia di mercato «che crea posti di lavoro», prima di farci una lezione sul carattere, secondo lui, «xenofobo» del dibattito francese sull'«idraulico polacco». E si spiega questa tendenza della Cgce con l'arrivo di giudici dai paesi dell'Europa centrale e orientale (Peco), a partire dal 2004. In questi paesi, le élite spesso ritengono che il diritto sociale sia uno strumento nascosto dei vecchi stati membri, usato a protezione dei loro mercati (si legga il dossier da pagina 12 a 16). In qualche modo è colpa del giudice polacco! Infatti, come segnala il politologo Gersende Mayo, «Le logiche di voto possono corrispondere a diverse contrapposizioni , a volte poco leggibili: eurofili contro euroscettici, propensioni nazionali, piccoli gruppi contro Ppe-Pse e, in maniera sempre più residuale, la contrapposizione destra-sinistra». Ricordando i dibattiti europei, Gaël Brustier, ricercatore in scienze politiche, è incerto: «Ho l'impressione che si tratti di riti, si fa "come se"... come se l'Europa fosse politica, come se potesse essere sociale...» Per Castex tuttavia, se il Parlamento è una «istituzione che manca di maturità» - preoccupazione che troviamo anche in Daul - , gli eventi recenti (sentenze della Cgce, crisi sociale) potrebbero contribuire alla sua affermazione come istanza rappresentativa, necessità sempre più forte dal momento che la sua elezione, ogni cinque anni, mostra una crescente percentuale di astensionismo. Ci racconta di come, durante il voto della risoluzione anti Cgce, per le strade di Bruxelles si siano tenute delle manifestazioni sindacali, dimostrando che l'assemblea può essere «influenzata dall'esterno». Ma fino a che punto? Le sue prese di posizione «progressiste» si iscrivono in un contesto particolarmente sfavorevole al sociale. È un universo in cui si discute l'idea di una settimana di lavoro di settanta ore e in cui la norma resta di quarantotto ore... Un sindacalista riassumeva con una metafora militare: «Ci rallegriamo di aver fatto un metro, quando ne abbiamo persi cento».
In maniera sintomatica, all'epoca del dibattito sulle sentenze della Cgce, il Parlamento si è rifiutato di esigere apertamente un chiarimento dei trattati per determinare l'equivalenza dei diritti economici e sociali. La Gue (sinistra unitaria europea), chiedeva soprattutto l'aggiunta al trattato di Lisbona di una clausola sul progresso sociale.
Questa proposta è stata scartata provocando la collera di Mary Lou McDonald, deputata irlandese (Gue). Si è dichiarata «profondamente delusa» dal rapporto della commissione per il lavoro e gli affari sociali, che è servito da base per la risoluzione parlamentare. In effetti, questo documento «non chiede la modifica del diritto fondamentale, necessaria alla protezione dei lavoratori. La versione iniziale del testo riconosceva che emendare il trattato di Lisbona sarebbe stata una valida opzione. Ma quest'idea è stata deliberatamente e cinicamente ritirata». La risoluzione finale adottata dal Parlamento chiede un chiarimento del «diritto primario», senza precisare di più. Pur essendo ferma sui principi, la risoluzione si concentra sulle direttive e la loro interpretazione, soprattutto su quella del 1996 relativa al distacco dei lavoratori, e chiede alla Commissione di Bruxelles di fare delle proposte di modifica di questo testo e agli stati membri di render nota la propria posizione. Non si sa chi abbia risposto. Per Marian Harkin (Adle), rivedere i trattati per rispondere alle sentenze della Cgce corrisponderebbe a «prendere un martello per schiacciare una mosca». Il trattato di Lisbona basterebbe a riequilibrare la situazione. Eppure, per confessione della stessa Séverine Picard, responsabile del servizio giuridico della Confederazione europea dei sindacati (Ces), che sostiene la ratifica di questo testo, «è difficile che da solo possa determinare un cambio di rotta della legislazione», anche se la Carta dei diritti fondamentali, che diventerà obbligatoria, inserisce il «diritto alla contrattazione collettiva». Secondo lei, la Cgce ha mostrato l'entità del proprio potere di valutazione, forte dei riferimenti ai trattati, nel caso di un conflitto tra il diritto all'azione collettiva dei lavoratori, che riconosce, e la libertà di azione delle imprese. La Cgce fa pendere la bilancia in favore di quest'ultima, che considera il «pilastro» del Mercato comune. Attaccando la legislazione senza tirare in ballo i trattati, il Parlamento cerca di ricavarsi uno spazio nella cucina europea senza rompere i piatti liberali ereditati dai «padri fondatori».
Le recenti prese di posizione sociali dei deputati hanno inoltre delle ragioni congiunturali. Dopo i «no» olandese e francese nel 2005, poi irlandese nel 2008, l'Unione si trova di fronte a una crisi di legittimità. Deve restaurare la propria immagine senza però rimettere in discussione gli equilibri politici costruiti in cinquant'anni.
Del resto, uno degli argomenti utilizzati per far votare la risoluzione antidumping sociale era che le sentenze della Cgce venivano utilizzare per screditare il trattato di Lisbona. Secondo Brustier, «esiste una convergenza di interessi perché i governi, il Parlamento e la Commissione concepiscono progetti che mirano a mettere in valore l'azione dell'Europa di fronte alla crisi e alle difficoltà sociali. L'Europa è inseparabilmente legata al liberismo.
Dal momento che è il frutto dell'acquisizione di autonomia delle élite, ma che il suffragio universale si esprime ancora, i dirigenti europei sono costretti a scimmiottare l'"Europa sociale" e la sua realtà...» È altresì vero che i governi hanno costantemente sostenuto l'aumento dei poteri del Parlamento. Quando la Convenzione presieduta da Valéry Giscard d'Estaing, nel 2004, negoziava il «trattato costituzionale», i deputati hanno lavorato di concerto con gli stati membri, con il risultato conosciuto, e hanno sostenuto fino in fondo il testo, anche dopo il rifiuto da parte dei popoli francese e olandese. Per quanto siedano per gruppi politici, i rappresentanti continuano a riunirsi per nazionalità e non è raro che, prima di ogni sessione, i governi espongano agli eletti del proprio paese la politica che devono portare avanti.
Sebbene tutto ciò possa essere considerato legittimo, tenuto conto dell'importanza che conserva il quadro statale in Europa - come dimostrato dalla crisi finanziaria - , è vero anche che relativizza l'idea che il Parlamento incarni l'emergenza di un «popolo europeo» in nome del quale potrebbe diventare «legislatore federale » dell'Unione.
Autrice: ANNE-CÉCILE ROBERT
Fonte: www.monde-diplomatique.it
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