Wirepullers: l'Arabia Saudita ha pubblicamente annunciato un imminente abbassamento del prezzo del petrolio, motivando questa politica con l'intenzione di non infierire su un'economia globale già molto traballante. La spiegazione ufficiale però nasconderebbe il tentativo di colpire le casse iraniane, dando un taglio netto alle entrate di Teheran, la cui economia dipende dall'oro nero molto più di quella di Riyadh. I due paesi sono ai ferri corti già da qualche tempo e ne sanno qualcosa in Yemen, ma ora i sauditi, con la benedizione di Washington, hanno deciso di ispirarsi agli anni della guerra fredda, quando fu proprio l'abbassamento del costo del petrolio una delle armi determinanti per dare il colpo di grazia all'Unione Sovietica. Ahmadinejad si sarà guardato molto bene le immagini dei festeggiamenti per la caduta del muro di Berlino. (3)
Il crollo dei prezzi del petrolio, causato dalla contrazione della domanda conseguente alla recessione mondiale, è senz’altro una benedizione per i Paesi occidentali consumatori di greggio. Ma potrebbe rivelarsi, a lungo termine, una maledizione. Per ragioni economiche e, soprattutto, politiche. Innanzitutto, la caduta dei corsi petroliferi – e di quelli del gas, legati al greggio – interrompe i tentativi di sfruttamento di giacimenti dove l’estrazione è difficile e costosa. Infatti, economie occidentali “sazie” di petrolio ormai a buon mercato non hanno più l’incentivo economico a spendere denaro e risorse per estrazioni onerose: con il barile sotto i cinquanta dollari – un terzo di pochi mesi fa – la redditività scompare. In questo modo, ad esempio, non conviene più alle compagnie petrolifere investire nei costosi scisti bituminosi nordamericani, nelle sabbie bituminose del Canada, nel greggio super-pesante dell’Orinoco, nell’ “offshore profondo” nel Golfo del Messico e nel Golfo di Guinea. Eppure, uno studio della Rand Corporation ha valutato la capacità di produzione media dei soli scisti bituminosi del Nord degli Stati Uniti in circa 800 miliardi di barili: il triplo delle riserve saudite. Anche la ricerca di fonti energetiche alternative, il perseguimento di maggiore efficienza energetica o l’aumento della quota di nucleare potrebbero essere “narcotizzati” dai bassi prezzi. Quando la crisi economica in corso sarà superata e la domanda crescerà di nuovo, l’aumento dei prezzi potrebbe essere violento, a causa di un’offerta rigida e senza alternative, scartate perché non redditizie in tempi di abbondanza. Il Financial Times ha scritto al riguardo che “il crollo del prezzo del petrolio è come un analgesico che crea una pericolosa dipendenza: si ottiene un sollievo a breve termine, al costo di un serio danno sul lungo termine”.

Il lato politico del crollo dei prezzi petroliferi è forse ancora più pericoloso. I Paesi produttori sono praticamente tutti monoesportatori, non hanno cioè alternative economiche per produrre benessere. E’ la “maledizione del petrolio”, così definita dal direttore di Foreign Policy ed ex ministro dell’Industria del Venezuela Moisés Naìm: “Il petrolio non è soltanto una risorsa, è una forza capace di orientare la politica interna di una nazione, i suoi rapporti internazionali e persino la sua cultura. In Paesi privi di istituzioni democratiche mature e di un settore pubblico flessibile, il petrolio diventa una maledizione. Genera corruzione, ineguaglianza, disoccupazione e lotte per il potere che si concentrano naturalmente sul controllo della principale industria nazionale. Il petrolio garantisce al governo potere e autonomia, assicura entrate indipendenti dalle tasse”. E’ la storia delle petromonarchie del Golfo Persico, degli esportatori del mondo arabo, dell’Iran, della Nigeria, dell’Angola, del Messico, del Venezuela e della Russia. Questi Stati sono ovviamente fra loro diversissimi, ma li unisce la dipendenza dall’esportazione di materie prime come unico modo per ottenere valuta. Appagati dalle entrate del petrolio e del gas, non hanno mai conosciuto incentivi e stimoli per diversificare le loro economie, il che vincola il benessere di intere popolazioni ai corsi delle materie prime, per definizione fluttuanti. Tutti i Paesi produttori di greggio dipendono in gran parte dagli introiti dell’oro nero per finanziare l’educazione, la sanità, le infrastrutture, il welfare e i sussidi per la disoccupazione, specie quella giovanile. Un netto calo di questi fondi potrebbe creare problemi sociali gravi in Paesi in cui la gran parte della popolazione è rimasta povera e si sono arricchite solo le élite. Ad esempio, le politiche di redistribuzione del Venezuela di Chavez già non avevano molto successo con i prezzi del greggio alle stelle; se, come alcuni economisti prevedono, il barile dovesse crollare a 25 dollari, sarà difficile immaginare un futuro roseo per il “socialismo bolivariano” di Caracas, che ha tra l’altro speso somme enormi per acquistare materiale militare dalla Russia. Così come ha fatto l’Iran, che ha un’inflazione e un tasso di disoccupazione giovanile altissimi e ha varato bilanci espansivi nel tentativo di finanziare lavori pubblici, generare sussidi e creare lavoro. Venezuela e Iran non devono temere il fascino dell’integralismo islamico – per motivi opposti – ma i Paesi arabi sì: se la crisi dovesse costringere le petromonarchie del Golfo a rispedire a casa i giovani immigrati egiziani, giordani e yemeniti che lavorano nella penisola arabica, questi disoccupati, una volta tornati nei loro Paesi e senza prospettive di lavoro, potrebbero contribuire ad alimentare la protesta islamica contro i regimi filoccidentali.
Il caso della Russia presenta quasi un rapporto di causa ed effetto fra fluttuazioni petrolifere e

mutamenti politici: dopo il primo shock petrolifero del 1973, Mosca incrementa il ritmo del riarmo e si espande in Asia e in Africa; dopo il secondo shock del ’79, un’Unione Sovietica ricca di valuta e sicura di sé invade l’Afghanistan; la caduta dei prezzi negli anni ’80 obbliga il Cremlino alla perestrojka gorbacioviana, nel tentativo di salvare uno Stato in bancarotta; il crollo dei prezzi di fine anni ’80 contribuisce alla fine dell’Urss; dopo la transizione eltsiniana, il rialzo dei corsi finanzia la restaurazione autoritaria di Putin e la sua politica estera aggressiva. Non è che oggi le cose siano molto cambiate. Come ha dichiarato al Sole 24 Ore l’ex premier russo Egor Gaidar, “l’80 per cento dell’export è greggio, gas e metalli. Come in epoca sovietica, come negli anni ‘90”. E la caduta dei prezzi incide pesantemente su un’economia legata al petrolio e al gas: il colosso energetico Gazprom ha perso in un anno il 74 per cento del valore, nello stesso periodo la Borsa ha ceduto il 67 per cento, i primi 32 oligarchi hanno perso 250 miliardi di euro secondo la rivista Forbes.
Lo scenario peggiore è quello di Paesi destabilizzati dalla caduta dei prezzi del petrolio, con rivoluzioni islamiche o nazionaliste. Questi nuovi regimi rivoluzionari nati dalla crisi sarebbero però in grado di consolidarsi al momento della ripresa internazionale, grazie al rialzo dei prezzi, reso più acuto dalla mancanza di alternative energetiche. In questo caso, oltre a poter distribuire nuova ricchezza ai loro cittadini per ottenere consenso, i nuovi governi, qualunque fosse la loro natura, non potrebbero essere ignorati né tantomeno contrastati da un Occidente sempre dipendente dal petrolio.
Autore: Pierluca Pucci Poppi
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