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lunedì 22 giugno 2009

Parola d'ordine «stabilità», per la classe media cinese

Wirepullers: quello da poco iniziato potrebbe essere ricordato come il secolo cinese e non come il New American Century, in barba ai vari Dick Cheney, Condoleeza Rice e Donald Rumsfeld. Pochi giorni fa, in occasione del ventennale di piazza Tienanmen, ci chiedavamo cosa fosse rimasto di quella rivolta. Proviamo a dare una prima risposta: Le Monde, Monde Diplomatique e Prospect. (2)

Tutti sperano nell'avvento della classe media cinese. I primi a sperarlo sono i media occidentali, perché ciò «genererebbe» la società civile, la democrazia e nuovi mercati; i cinesi perché vorrebbero farne parte, cosa che rappresenterebbe una dimostrazione di modernità e di realizzazione personale; gli intellettuali e i giornalisti locali perché vi vedono il germe di una «presa di coscienza politica»; il governo, infine, perché questo sarebbe sinonimo di stabilità, di manodopera qualificata, razionale e dai consumi avveduti.
Questa nuova classe sociale è apparsa negli anni Novanta; istruita, urbana, si contraddistingue per il suo accesso alla «piccola ricchezza» (xiaokang), che permette di approfittare dei vantaggi della società dei consumi: non solo un tetto e cibo a sufficienza - come è già il caso per gran parte della popolazione urbana della Cina socialista - ma anche un appartamento e un'automobile, la possibilità di andare al ristorante, di fare delle vacanze e così via.
Quanti sono questi nuovi cinesi della classe media? In funzione dei criteri scelti, le stime possono variare in modo molto ampio. Se ci si limita al solo criterio del reddito, e vi si integrano le risorse informali (premi in contanti, commissioni, lavoro nero), la cifra può raggiungere i 300-350 milioni di individui. Questo gruppo include tanto i funzionari statali malpagati, dallo stile di vita discreto ma spesso con ricchi conti in banca, quanto i piccoli imprenditori e i commercianti ricchi - per lo più poco istruiti e molto dipendenti dai poteri locali - i contadini e gli emigranti arricchiti - ma disprezzati dalla popolazione urbana - i professori, i medici, i dipendenti di grandi imprese, gli ingegneri e così via. Se invece si sovrappongono vari criteri, come il livello di istruzione, lo stile di vita o la «propensione all'attività politica», la cifra diminuisce e il loro numero cala a poche decine di milioni.
L'affermazione economica di questa classe di «piccola ricchezza» è accompagnata dalla sua ascesa sociale, che ne fa il gruppo ideale e dominante della futura società cinese. Si ritiene che il successo dei «piccoli ricchi» si basi sul talento, sul lavoro, sull'istruzione e su una continua volontà di progredire; sono consumatori convinti ed esigenti di merci a forte valore aggiunto. Questi individui sono destinati a formare lo zoccolo duro di quella domanda interna che dovrebbe trainare la crescita cinese. Portatori di modernità, «civilizzati» nelle loro maniere e nei loro comportamenti, essi hanno il ruolo di gruppo di riferimento per le altre classi sociali emergenti.
A quanto pare la classe media si identifica pienamente con questa immagine; coltiva una visione morale dell'economia e della società in generale. Al contrario dei «parvenu» (baofahu), i suoi membri non usano né raccomandazioni né mezzi illegali per raggiungere il successo, sono onesti lavoratori con redditi trasparenti. Per loro la ricchezza è sospetta, perché non vi si può accedere con le sole qualità personali.
Il loro giudizio sui poveri e sugli emigranti è più articolato. Per loro è lo stato che deve occuparsene. Gli emigranti, con i quali condividono il valore del lavoro come principale fonte di sostentamento e il risentimento nei confronti delle classi favorite, sono visti come gente che merita considerazione e attenzione da parte della società. Tuttavia un certo paternalismo porta a distinguere due tipi di poveri: i «veri poveri», che meritano rispetto - gli anziani, gli invalidi e così via - e gli altri, che non fanno nulla per «uscire» dalla loro situazione e che quindi non sono degni degli aiuti pubblici.
In secondo luogo gli emigranti devono essere aiutati perché costituiscono il principale serbatoio dal quale arriveranno i nuovi elementi della classe media. La maggioranza dei cittadini urbani ha già raggiunto questo livello e adesso si cerca di integrare gradualmente parte di questi (ex) contadini. Ma a una condizione: che questi ultimi accettino la «civilizzazione» e compiano lo sforzo necessario per diventare dei «veri» cittadini urbani, istruiti, educati, capaci di parlare bene la lingua nazionale, bravi lavoratori e consumatori.
Cercando di istruirsi, devono dimostrare la loro volontà e la loro capacità di fondersi nella classe media. La questione dell'integrazione di nuovi strati sociali nella sfera della «piccola ricchezza» riveste un importante aspetto politico. Infatti i cinesi della classe media, nonostante le loro affermazioni, sono dei privilegiati. Questa nuova identità è stata raggiunta grazie al monopolio che esercitano sulle due fonti principali del successo, l'istruzione superiore e le loro reti di relazioni. Che cosa succederà una volta che questo monopolio sarà scomparso con l'arrivo degli emigranti?
Il giudizio dei settori più «avanzati» - i lavoratori dei media, della pubblicità, delle imprese di punta o del settore delle arti e dello spettacolo - è pragmatico: quali sarebbero i vantaggi di una democrazia partecipativa? Di certo non dirigenti migliori, più onesti e più competenti, al contrario il rischio reale è di vedere eletti nuovi arrivati poco esperti, legati a potenti lobby o interessati solo a rafforzare il proprio potere. Questa «democrazia partecipativa» non permetterebbe di avere più mezzi per lottare contro le diseguaglianze, come dimostra l'esempio di grandi democrazie come l'India e gli Stati uniti. In altre parole, la questione è posta in termini simili a quelli che caratterizzavano il diciannovesimo secolo europeo: la democrazia è una buona cosa, ma bisogna introdurla gradualmente, con il progressivo miglioramento della qualità della popolazione.
Bisogna aspettare che i contadini diventino demos, cioè classe media. Il dibattito politico non si incentra quindi sulla qualità delle politiche adottate, poiché i dirigenti cinesi godono dell'appoggio della stampa. La diagnosi riguarda invece l'attuale incapacità di applicare queste politiche nei confronti di un sistema amministrativo che non è ancora regolato per legge: è l'assenza di uno stato di diritto a impedire alla società di essere giusta e governata con efficienza, e non l'assenza di elezioni. Pronti a difendere i loro interessi, le classi medie considerano il diritto come l'elemento più importante della regolazione sociale, rifiutando di utilizzare mezzi violenti per opporsi alle pretese di altri gruppi sociali e alle politiche pubbliche sgradite. Una rivendicazione molto importante riguarda la creazione di canali legali di protesta, allo scopo di creare una forma di rappresentanza sociale degli interessi; i modelli da seguire sono le lotte delle classi medie per la difesa dei diritti (weiquan), quelle dei proprietari, e in particolare dei difensori dell'ambiente.
L' indignazione costituisce il motore principale della maggior parte dei movimenti: indignazione davanti ai diritti violati e al rifiuto di seguire le procedure legali; indignazione di fronte a un'esperienza personale di ingiustizia. Non esiste una memoria collettiva della protesta, è quindi in base alla scoperta di un inquinamento o di un conflitto con un costruttore immobiliare o un amministratore, o semplicemente in seguito a un litigio violento con una guardia, che le classi medie scoprono che il loro status privilegiato non le sottrae all'arbitrio. Tuttavia questo evento non rimette in discussione la loro fiducia complessiva nel regime, è piuttosto l'occasione per misurare i limiti dell'applicazione di quei principi giuridici e morali che ne costituiscono ormai la base ufficiale.
Le rivendicazioni possono essere universali nel discorso - rispetto del diritto, libertà di protesta - ma sono sempre locali e circostanziate nella pratica. Si tratta di chiudere una fabbrica inquinante, di ottenere il blocco di un progetto immobiliare, di togliere a un amministratore condominiale la gestione delle parti comuni. In questo ultimo caso la preoccupazione assume un carattere espressamente finanziario: posti di parcheggio e negozi dati in affitto, il sottosuolo concesso dietro compenso a imprenditori che vi alloggiano la loro manodopera o le strutture sportive di circoli privati. In tutti questi casi si tratta di difendere degli interessi particolari.
I modi di azione utilizzati rivestono lo stesso carattere. Si firmano petizioni, si formano associazioni, si utilizzano i testi ufficiali e si denunciano chi non li applica, si ricorre ai media, si cerca di trovare l'appoggio di politici, si utilizza il progetto di integrazione con la comunità internazionale per convincere le autorità a modernizzare anche le modalità di protesta. L'obiettivo non è mai l'affermazione di una rappresentanza politica, ma di una rappresentanza sociale o pubblica degli interessi del «popolo».
L'immagine non corrisponde affatto a quella fornita dalla teoria della transizione, che considera la democrazia come il prodotto ineluttabile della crescita economica. Ma corrisponde abbastanza bene a quello che si sa delle classi medie occidentali. «La sottomissione etica alla classe dominante e ai "valori" che essa incarna» si esprime in particolare nella loro «strategia favorita, che consiste nell'utilizzare contro l'ordine dominante quelli stessi principi che esso proclama».
Le rivendicazioni riguardano il «rispetto della persona» e i suoi diritti - in particolare in quanto proprietario. Allo sciopero e alla manifestazione si preferisce la pedagogia, l'informazione e l'associazione - «raggruppamento seriale di individui riuniti per la stessa "causa"» - l'ingiunzione etica.La crisi cambierà la situazione? Il suo impatto sull'occupazione è reale, anche se limitato. Si parla di 20 milioni di emigranti senza lavoro - ma su una popolazione complessiva valutata di recente in 200 milioni. I più colpiti sono i giovani, tra i quali sei milioni di laureati sono senza lavoro. Spesso i contratti dei giovani laureati non sono rinnovati, e molti hanno visto il loro stipendio diminuire del 50 o addirittura del 70% in cambio del mantenimento del posto di lavoro. Diverse misure sono state prese per limitare i licenziamenti in tronco.
Di recente si è assistito a una vera e propria mobilitazione in favore dell'occupazione, come ha mostrato l'ultima riunione dell'Assemblea nazionale popolare nel marzo scorso. Le autorità «consigliano» con insistenza alle imprese di non mettere alla porta i lavoratori e di assumere giovani laureati, anche se come semplici custodi o meccanici. Le autorità locali e i sindacati si sono mobilitati per aiutare gli emigranti attraverso sussidi e posti di lavoro.
Questa preoccupazione per il posto di lavoro mostra che le politiche attuate sono in sintonia con le esigenze e i problemi dell'attuale classe media (popolazione urbana laureata) e in ascesa (la parte minoritaria della popolazione urbana che non ha ancora avuto accesso alla «piccola ricchezza»): la rinuncia al progetto di trasformazione in classe media della società non è messo in discussione. Il rischio quindi di assistere a una contestazione del regime è molto basso.
Tanto più che il governo attribuisce la crisi a quel capitalismo selvaggio che ha sempre criticato - anche se poi lo ha combattuto con molta meno convinzione ed efficacia. Una battuta circola a Pechino: «qualche anno fa il capitalismo ha salvato la Cina; oggi è la Cina che salva il capitalismo».
In questa fase di «domanda di stato», in cui il bisogno di protezione si contrappone alla paura dell'instabilità, è difficile immaginare che un gruppo sociale così attaccato all'ordine possa improvvisamente minare le basi della sua (piccola) ricchezza - a meno che ovviamente la crisi persista, si aggravi e riduca profondamente il livello di vita. In Cina il disordine è sempre stato giudicato negativamente dalla stampa, non solo perché potrebbe rimettere in discussione le recenti conquiste, ma anche perché evoca ricordi dolorosi (il Grande balzo in avanti, la Rivoluzione culturale, Tienanmen). In ogni modo la contestazione sociale continuerà e assumerà sempre maggiore importanza, con il progressivo sfasamento fra i valori consensuali e la realtà.
Ma come abbiamo visto, contestare non significa fare la rivoluzione.
Autore: Jean-Louis Rocca

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