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martedì 30 giugno 2009

Caro presidente Napolitano

Wirepullers: a fine 2007 il New York Times pubblicava un articolo del proprio inviato in Italia, Ian Fisher, nel quale veniva descritta un'Italia in pieno declino economico ma soprattutto politico, sociale e culturale. Viene da chiedersi quali siano le cause di un declino a così ampio raggio. Una risposta forse ce la dà Rita Clementi, ricercatrice che ha deciso di lasciare il nostro paese. Ecco la lettera che ha voluto scrivere al presidente della repubblica.

Caro presidente Napolitano,

chi le scrive è una non più giovane ricercatrice precaria che ha deciso di andarsene dal suo Paese portando con sé tre figli nella speranza che un’altra nazione possa garantire loro una vita migliore di quanto lo Stato italiano abbia garantito al­la loro madre. Vado via con rab­bia, con la sensazione che la mia abnegazione e la mia dedi­zione non siano servite a nulla. Vado via con l’intento di chie­dere la cittadinanza dello Stato che vorrà ospitarmi, rinuncian­do ad essere italiana.

Signor presidente, la ricerca in questo Paese è ammalata. La cronaca parla chiaro, ma oltre alla cronaca ci sono tantissime realtà che non vengono denun­ciate per paura di ritorsione perché, spesso, chi fa ricerca da precario, se denuncia è auto­maticamente espulso dal «siste­ma » indipendentemente dai ri­sultati ottenuti. Chi fa ricerca da precario non può «solo» contare sui risultati che ottie­ne, poiché in Italia la benevo­lenza dei propri referenti è una variabile indipendente dalla qualità del lavoro. Chi fa ricer­ca da precario deve fare i conti con il rinnovo della borsa o del contratto che gli consentirà di mantenersi senza pesare sulla propria famiglia. Non può per­mettersi ricorsi costosi e che molto spesso finiscono nel nul­la. E poi, perché dovrebbe adi­re le vie legali se docenti dichia­rati colpevoli sino all’ultimo grado di giudizio per aver con­dotto concorsi universitari vio­lando le norme non sono mai stati rimossi e hanno continua­to a essere eletti (dai loro colle­ghi!) commissari in nuovi con­corsi?

Io, laureata nel 1990 in Medi­cina e Chirurgia all’Università di Pavia, con due specialità, in Pediatria e in Genetica medica, conseguite nella medesima Uni­versità, nel 2004 ho avuto l’onore di pubblicare con pri­mo nome un articolo sul New England Journal of Medicine i risultati della mia scoperta e cioè che alcune forme di linfo­ma maligno possono avere un’origine genetica e che è dun­que possibile ereditare dai geni­tori la predisposizione a svilup­pare questa forma tumorale. Ta­le scoperta è stata fatta oggetto di brevetto poi lasciato decade­re non essendo stato ritenuto abbastanza interessante dalle istituzioni presso cui lavoravo. Di contro, illustri gruppi di ri­cerca stranieri hanno conferma­to la mia tesi che è diventata ora parte integrante dei loro progetti: ma, si sa, nemo profe­ta in Patria.

Ottenere questi risultati mi è costato impegno e sacrifici: mettevo i bambini a dormire e di notte tornavo in laboratorio, non c’erano sabati o domeni­che...

Lavoravo, come tutti i precari, senza versamenti pen­sionistici, ferie, malattia. Ho avuto contratti di tutti i tipi: borse di studio, co-co-co, con­tratti di consulenza... Come ul­timo un contratto a progetto presso l’Istituto di Genetica me­dica dell’Università di Pavia, fi­nanziato dal Policlinico San Matteo di Pavia.

Sia chiaro: nessuno mi impo­neva questi orari. Ero spinta dal mio senso del dovere e dal­la forte motivazione di aiutare chi era ammalato. Nel febbraio 2005 mi sono vista costretta a interrompere la ricerca: mi era stato detto che non avrei avuto un futuro. Ho interrotto una ri­cerca che molti hanno giudica­to promettente, e che avrebbe potuto aggiungere una tessera al puzzle che in tutto il mondo si sta cercando di completare e che potrebbe aiutarci a sconfig­gere il cancro.

Desidero evidenziare pro­prio questo: il sistema antimeri­tocratico danneggia non solo il singolo ricercatore precario, ma soprattutto le persone che vivono in questa Nazione. Una «buona ricerca» può solo aiuta­re a crescere; per questo moti­vo numerosi Stati europei ed extraeuropei, pur in periodo di profonda crisi economica, han­no ritenuto di aumentare i fi­nanziamenti per la ricerca.

È sufficiente, anche in Italia, incrementare gli stanziamenti? Purtroppo no. Se il malcostu­me non verrà interrotto, se chi è colpevole non sarà rimosso, se non si faranno emergere i migliori, gli onesti, dare più soldi avrebbe come unica con­seguenza quella di potenziare le lobby che usano le Universi­tà e gli enti di ricerca come feu­do privato e che così facendo distruggono la ricerca.Con molta amarezza, signor presidente, la saluto.

Rita Clementi

lunedì 29 giugno 2009

Protesters demand return of ousted Honduran president Manuel Zelaya

Wirepullers: prima l'Iran, adesso l'Honduras. Le rivolte popolari sembrano essere tornate di moda (o forse non sono mai passate) e la memoria va inevitabilmente alla rivoluzione francese. Cosa spinge un popolo a scendere in piazza e a rischiare la vita per dire basta a chi lo governa? Cosa portano in eredità le rivolte del popolo? Ci sarà sempre il rischio di una rivoluzione? Vediamo come sono nate le rivoluzioni del passato, quelle più recenti e cosa sta succedendo nel piccolo stato del Centro America. (3)

Protesters in Honduras yesterday put up roadblocks in the capital, Tegucigalpa, as they demanded the return of the president, Manuel Zelaya, hours after he was ousted in a military coup.
Hundreds of people, some wearing masks and armed with sticks, put up barricades near the presidential palace as governments across the region condemned the first military overthrow in central America since the end of the cold war.
What has so far been a bloodless coup could yet turn lethal.
Shots were fired near the presidential palace last night,but it was unclear who was shooting or whether there were any casualties.
Soldiers seized Zelaya, who was in his pyjamas, early yesterday and took him to neighbouring Costa Rica by plane.
The 56-year-old president, looking dishevelled but calm, said he had been expelled by "rightwing oligarchs" and promised to return to Honduras.
Zelaya, who had been in office since 2006, was ousted after clashing with the judiciary, congress and the army over proposed constitutional changes that would allow presidents to seek re-election.
The US and European Union joined Latin American governments in denouncing the coup.
In Honduras, however, the establishment rallied around the army's action.
Congress named an interim president, Roberto Micheletti, who announced an immediate curfew for Sunday and Monday nights. The country's leading court said it had authorised the toppling of the president.
The protests in Tegucigalpa were small, but defiant civilians shouted insults and slapped soldiers occupying the presidential palace. Most Hondurans, who are bitterly divided over Zelaya, stayed indoors.
The deposed leader was due to meet leftwing allies in Nicaragua today for an emergency summit likely to be dominated by Zelaya's mentor, the Venezuelan president, Hugo Chávez.
Chávez put Venezuelan troops on alert and vowed do everything necessary to restore his ally, whom he claimed may have been ousted by Washington's hand.
Analysts, however, expressed doubt that he had either the will or the capacity for military intervention.
The US president, Barack Obama, distanced the US from any involvement in the coup.
"Any existing tensions and disputes must be resolved peacefully through dialogue free from any outside interference," he said. Washington said it recognised only Zelaya as president.
Honduras, an impoverished coffee, textile and banana exporter, has been politically stable since the end of military rule in the early 1980s. It was a solid Washington ally in the cold war and still has a US military base.
Zelaya, a rich and flamboyant landowner, was elected as a conservative but in the past two years embraced Chávez's form of "21st century socialism".
He was popular among much of the Honduran poor, but his overall ratings were down to 30%.
Last week, Zelaya tried to fire the armed forces chief, General Romeo Vasquez, in a dispute over an attempt to hold an unofficial referendum about changing the constitution to allow presidential terms beyond a single, four-year stretch.
Under the constitution as it stands, Zelaya would have been due to leave office in early 2010.
The supreme court, which last week ordered him to reinstate Vasquez, said yesterday it had told the army to remove the president.

Autore: Rory Carroll

Geopolitica delle rivolte

Wirepullers: prima l'Iran, adesso l'Honduras. Le rivolte popolari sembrano essere tornate di moda (o forse non sono mai passate) e la memoria va inevitabilmente alla rivoluzione francese. Cosa spinge un popolo a scendere in piazza e a rischiare la vita per dire basta a chi lo governa? Cosa portano in eredità le rivolte del popolo? Ci sarà sempre il rischio di una rivoluzione? Vediamo come sono nate le rivoluzioni del passato, quelle più recenti e cosa sta succedendo nel piccolo stato del Centro America. (2)

Spettro tante volte evitato, prospettiva bloccata dalle proprie deviazioni, la rivoluzione sembrava ormai riposare nel cimitero della storia. Ma nonostante gli scongiuri, l'immensa speranza che un giorno tutto possa cambiare si fa strada nella coscienza collettiva e nasce dalla concatenazione degli eventi. Questo filo conduttore che si dipana attraverso i secoli e i continenti non si è mai interrotto. Movimento operaio, emancipazione delle donne e di tutti gli oppressi, liberazioni nazionali: c'è un nuovo capitolo che attende di essere scritto? La rabbia sollevata dall'attuale crisi economica preoccupa i commentatori conservatori. Consapevoli che il loro modello ideologico sta crollando, seguono con inquietudine i segni premonitori, osservando gli operai francesi, i disoccupati cinesi, i manifestanti lettoni. Un nuovo mondo? Quello che è certo è che la folle corsa del capitalismo sta mettendo in crisi quello che conoscevamo.


Come piccole scosse telluriche che annunciano un terremoto di grande potenza, i movimenti di contestazione che hanno agitato il mondo nel 2008 sono stati altrettanti segnali premonitori dell'attuale sisma economico. Che si basino su questioni sociali, etniche o linguistiche, i conflitti che dividono le società umane rivestono forme diverse a seconda dei paesi. Ma molti di questi sollevamenti popolari dipendono da cause chiaramente identificabili.Accanto alla ricchezza generata a partire dai primi anni '90 dalla globalizzazione e dall'espansione del credito, si andata sempre più diffondendo una povertà che ha emarginato intere nazioni e popolazioni.A causa delle ripercussioni sulla vita quotidiana e sui mezzi di sussistenza di milioni di individui, la crisi ha accentuato delle linee di divisione sociali, politiche ed economiche già osservabili in precedenza.Nella primavera 2008 numerose «rivolte della fame» sono scoppiate in Bangladesh, in Camerun, in Costa d'Avorio, in Egitto, in Etiopia, in India, in Indonesia, in Giordania, in Marocco e in Senegal. Ad Haiti gli scontri hanno assunto un carattere estremamente emblematico. A Port-au-Prince l'assalto al palazzo presidenziale da parte di migliaia di manifestanti che chiedevano la distribuzione di cibo ha provocato l'intervento dell'esercito e delle forze della Missione delle Nazioni unite per la stabilizzazione a Haiti (Minustah). A Cayes, nel sud dell'isola, quattro persone sono state uccise nel corso di uno sparatoria con i caschi blu. Questi eventi hanno sopraffatto il primo ministro Jacques-Edouard Alexis, costretto a dimettersi. «È tempo di rivedere il nostro modo di pensare» In tutto il mondo dal 2007 al 2008 il prezzo medio delle derrate alimentari è raddoppiato, provocando il degrado del livello di vita di centinaia di migliaia di individui, che già vivevano nella povertà e che dedicavano una larga parte dei loro redditi all'acquisto di cibo. Secondo la Banca mondiale, questa spettacolare crescita dei prezzi si basava su due fattori: da un lato l'aumento importante del prezzo del petrolio e del gas naturale, molto utilizzati nelle attività agricole e nella produzione di fertilizzanti chimici; dall'altro la percentuale sempre più importante di coltivazioni dedicate agli agrocarburanti. Per alcuni aspetti questo fenomeno può essere paragonato a quello del crollo del mercato immobiliare negli Stati uniti. Nei due casi si tratta di un aumento sfrenato dei prezzi fondato sulla speculazione e sulla promessa di una crescita infinita. Per quanto riguarda gli agrocarburanti, il cambiamento delle coltivazioni dei terreni è la conseguenza della domanda in continua crescita dei trasporti, e tutto ciò ha provocato un aumento quasi automatico del prezzo delle derrate alimentari. In alcuni casi si è addirittura arrivati a organizzare la carenza di questi prodotti così da aumentare i profitti.Le «rivolte della fame» hanno preoccupato molti osservatori presenti sul posto. Queste sollevazioni richiamano alla memoria altre pagine della nostra storia, quelle che raccontano delle sommosse che sono riuscite a rovesciare dei regimi. L'ex primo ministro della Giamaica Percival James Patterson pensava probabilmente a questo quando ha evocato nell'aprile 2008 la probabilità di nuovi incidenti. Al G77 di Antigua, Patterson ha dichiarato: «Se pensate di essere al sicuro, se pensate che le rivolte non potranno trasformarsi in rivoluzioni, è tempo di rivedere il vostro modo di pensare». Nessuno può dire quello che sarebbe avvenuto in merito alla sua previsione, se nel momento in cui la crisi raggiungeva il suo apice, il prezzo del petrolio non avesse cominciato a scendere, immediatamente seguito da quello dei prezzi dei prodotti alimentari di base, così da ridurre le tensioni.Tuttavia le «rivolte della fame» sono solo una delle conseguenze dei disordini economici apparsi nel 2008. La disoccupazione di massa comincia ormai a diventare una realtà, e i governi e le imprese sono ritenuti responsabili di questa situazione. In India, dove diverse regioni sono teatro di violenti movimenti di contestazione spesso presentati come etnici, religiosi o legati al sistema delle caste, queste violenze dipendono anche dalle preoccupazioni economiche e da un diffuso sentimento di ingiustizia. Nel maggio 2008 migliaia di pastori nomadi - i gujjar - hanno protestato chiedendo alcune rivendicazioni economiche e bloccando le vie di accesso ad Agra, la città del Taj Mahal. Trenta di loro sono morti nel corso di incidenti con la polizia. In ottobre incidenti sono scoppiati anche nell'Assam, nel nord-est del paese, quando alcuni abitanti appartenenti agli strati più poveri della popolazione avevano cercato di limitare l'arrivo di immigranti clandestini provenienti dal vicino Bangladesh. In Cina si parla abitualmente di «incidenti di massa» per gli scontri che coinvolgono operai o contadini arrabbiati per la chiusura di fabbriche o per le espropriazioni illegali. Pechino utilizza questa espressione per definire gli scontri con le forze di polizia avvenuti nell'est del paese, quando lavoratori emigranti senza stipendio hanno saccheggiato diverse fabbriche. Questa escalation provocata dal rallentamento dell'attività economica riflette preoccupazioni anteriori. La frattura più evidente rimane la divisione fra la ricchezza delle classi medie urbane e la povertà delle popolazioni rurali. In periodo di prosperità gli operai avevano la possibilità di lasciare le campagne per andare a cercare lavoro nelle zone urbane, dove vengono fabbricati prodotti destinati all'esportazione.Ma molte fabbriche hanno chiuso i battenti. In molti casi i responsabili non hanno proposto alcun indennizzo. Nel dicembre 2008, in piena crisi, queste tensioni si sono estese anche all'Europa occidentale e ai paesi dell'ex Unione sovietica.Le manifestazioni sono motivate dalla paura della disoccupazione di lunga durata, da una perdita di fiducia - che arriva talvolta alla vera e propria insofferenza - nella capacità dei dirigenti di risolvere i problemi e nell'impressione che il «sistema» non risponda più né ai bisogni né alle aspirazioni della maggior parte della popolazione. La Grecia figura tra i primi paesi colpiti da questa nuova ondata di rivolte. Atene è stata scossa da sei giorni di manifestazioni e di violenze dopo la morte di uno studente di 15 anni caduto sotto i proiettili delle forze dell'ordine. Nonostante le scuse del governo e le inchieste della magistratura nei confronti dell'agente responsabile, gli incidenti si sono estesi a tutto il paese. Da Port-au-Prince a Vladivostok, la stessa rabbia Ma la situazione non ha fatto in tempo a normalizzarsi in Grecia che i russi hanno cominciato a manifestare il loro malcontento. All'origine della rivolta l'istituzione da parte del primo ministro Vladimir Putin di una tassa sulle automobili giapponesi importate per proteggere l'industria automobilistica nazionale. Immediatamente i concessionari di macchine usate giapponesi hanno manifestato il loro malcontento, subito seguiti dagli automobilisti che preferiscono comprare macchine straniere meno care di quelle nazionali. Così giganteschi blocchi stradali sono stati organizzati a Vladivostok e in altre trenta città lungo il paese.Il 2009 è cominciato in Europa dell'est con altri movimenti della stessa natura. Dal 13 al 16 gennaio, alcune manifestazioni hanno dato luogo a scontri con la polizia a Riga, a Sofia e a Vilnius, rispettivamente capitali della Lettonia, della Bulgaria e della Lituania. Questi incidenti sono stati scatenati dalla chiusura di una fabbrica, dall'annuncio di misure di austerità e dall'aumento dei prezzi. Tuttavia diversi fattori sistemici sono al centro di queste proteste e in fin dei conti tutte queste manifestazioni - così come quelle che hanno scosso l'Irlanda in febbraio - esprimono la stessa rabbia e la stessa sfiducia nei confronti dei governanti.Colpito a sua volta dalla crisi, il Pakistan ha conosciuto gravi disordini sociali. Anche se Washington continua a concentrarsi nella lotta contro al Qaeda e i taleban, altri osservatori cercano di lanciare l'allarme sul degrado del tessuto economico del paese. «La classe media pachistana, anche se poco numerosa, gode di una considerevole influenza politica - spiega Niall Ferguson, storico all'università di Harvard. Questa classe è stata letteralmente schiacciata dal crollo del mercato dei cambi, e una proporzione crescente di uomini e di donne deve fare i conti con la disoccupazione. È facile immaginare quindi le conseguenze di ciò sulla stabilità politica». Pericoli simili interessano i paesi produttori di petrolio. Queste nazioni infatti registrano una riduzione sostanziale dei loro redditi.Quando i prezzi erano a livelli più alti, alcuni di questi governi utilizzavano i soldi pubblici per finanziare programmi sociali (Venezuela, Bolivia con il gas), per ricompensare la lealtà di settori della popolazione vicini alle loro posizioni o per mantenere forze di sicurezza destinate a controllare i movimenti dissidenti. La scomparsa di questi redditi ha ovviamente provocato lo sviluppo di movimenti sociali di contestazione. Dopo la fine della seconda guerra mondiale il mondo ha conosciuto diversi periodi di recessione, ma la situazione attuale sembra molto diversa. Tutti si chiedono quando arriverà la ripresa. A questo proposito il rapporto della Banca mondiale per i ministri delle Finanze del G20 è piuttosto allarmante. Il rapporto infatti prevede che la crisi produrrà 46 nuovi milioni di poveri. Le riserve alimentari dovrebbero diminuire a causa delle gravi siccità che hanno colpito l'Argentina, l'Australia , il nord-ovest della Cina, l'ovest degli Stati Uniti e parte del Medioriente. Nella relazione si afferma inoltre che movimenti spontanei di rabbia non sono da escludere. E per una volta le azioni dei lavoratori francesi (Caterpillar, Molex, Continental) sembrano dare loro ragione.Il declino continuo dell'economia, l'aggravamento delle divisioni esistenti e la persistenza della sfiducia nei confronti delle istituzioni al potere sono tutti ingredienti di un cocktail pericoloso ed esplosivo.
Autore: Michael T. Klare

Elogio delle rivoluzioni

Wirepullers: prima l'Iran, adesso l'Honduras. Le rivolte popolari sembrano essere tornate di moda (o forse non sono mai passate) e la memoria va inevitabilmente alla rivoluzione francese. Cosa spinge un popolo a scendere in piazza e a rischiare la vita per dire basta a chi lo governa? Cosa portano in eredità le rivolte del popolo? Ci sarà sempre il rischio di una rivoluzione? Vediamo come sono nate le rivoluzioni del passato, quelle più recenti e cosa sta succedendo nel piccolo stato del Centro America. (1)

A duecentoventi anni dal 1789 qualcosa ancora si muove nel corpo della Rivoluzione. E dire che alla cerimonia del bicentenario, François Mitterrand aveva convocato Margaret Thatcher e Joseph Mobutu a presenziare alla chiusura della sua bara. E poiché la ricorrenza veniva a coincidere con l'anno della caduta del muro di Berlino, Francis Fukuyama annunciò «la fine della storia»; o in altri termini, la perennità del dominio liberista sul mondo intero e la fine, secondo lui irrevocabile, dell'ipoteca rivoluzionaria. Ora però la crisi del capitalismo ha dato un nuovo scossone alla legittimità delle oligarchie al potere. L'aria è più leggera - o più pesante, a seconda delle preferenze. Dopo aver espresso il suo sconforto davanti agli «intellettuali e artisti che incitano alla rivolta», Le Figaro osserva che «a quanto pare François Furet si era sbagliato: la Rivoluzione francese non è ancora finita».Eppure lo storico in questione - al pari di numerosi altri - non aveva risparmiato gli sforzi per esorcizzarne il ricordo, e sgombrare il campo da ogni tentazione del genere. Se in altri tempi era considerata come espressione di una necessità storica (Marx), di una «nuova era della storia» (Goethe), di un'epopea inaugurata dai soldati dell'anno II cantati da Victor Hugo - «in marcia, scalzi e superbi sul mondo abbacinato» - oggi si mettono in evidenza solo le sue mani insanguinate: un'utopia egualitaria, terroristica e virtuosa, che da Rousseau fino a Mao non avrebbe fatto altro che calpestare le libertà individuali per partorire il gelido mostro dello stato totalitario. Fino alla riscossa e alla vittoria della «democrazia», gioviale, pacifica e di mercato - anch'essa erede di rivoluzioni, ma di un altro ordine: all'inglese o all'americana, più politiche che sociali, «decaffeinate». In realtà, anche al di là della Manica avevano decapitato un re.Ma la resistenza dell'aristocrazia era stata meno vigorosa che in Francia, e la borghesia non aveva sentito il bisogno di allearsi col popolo per insediare il proprio dominio. Negli ambienti più favoriti questo modello, depurato dai sanculotti scalzi, appariva più distinto e meno inquietante. E dunque Laurence Parisot, presidentessa degli industriali francesi, non ha tradito le posizioni di chi l'ha eletta confidando a un giornalista del Financial Times: «Adoro la storia di Francia, ma non la Rivoluzione. Fu un atto di violenza estrema di cui soffriamo ancora. Perché ha costretto ognuno di noi a schierarsi».E ha poi aggiunto: «Da noi la pratica della democrazia non ha lo stesso successo che in Inghilterra». «Schierarsi»: la polarizzazione sociale è nefasta, soprattutto in tempi di crisi, quando si dovrebbe mostrarsi solidali con l'azienda in cui si lavora, il suo proprietario, il suo marchio - anche se ovviamente ciascuno deve restare al posto suo. Di fatto, chi non vede di buon occhio la Rivoluzione le rimprovera non tanto la sua violenza - fenomeno tristemente banale nella storia - quanto lo sconvolgimento dell'ordine sociale (infinitamente più raro) conseguente a una guerra tra ricchi e proletari.Nel 1988 il presidente George Herbert Bush, alla ricerca di un affondo micidiale per stendere l'avversario democratico Michael Dukakis (un tecnocrate del tutto inoffensivo) lo accusò di «voler dividere il paese in classi: cose che possono andar bene per l'Europa, ma non certo per l'America!» Il classismo negli Usa! Quale abominevole accusa! Tanto che a distanza di vent'anni, nel momento in cui le condizioni dell'economia americana sembrano imporre sacrifici diseguali, come lo erano i passati benefici (un verso dell'Internazionale ingiunge ai ladri di «rendre gorge» - cioè di restituire il maltolto) l'attuale inquilino della Casa bianca si affretta a disinnescare la rabbia popolare: «Una delle lezioni più importanti da trarre da questa crisi è che la nostra economia funziona solo se siamo uniti e coesi. (...) Non possiamo permetterci di vedere un demonio in ogni investitore o imprenditore che cerchi di realizzare un profitto». Contrariamente a quanto asseriscono alcuni dei suoi avversari repubblicani, Barack Obama non è un rivoluzionario...«La rivoluzione è innanzitutto rottura. Chi non accetta di rompere con l'ordine costituito, con la società capitalista, non può aderire al partito socialista.» Così parlava François Mitterrand nel 1971.Da allora le condizioni di adesione a questo partito (Ps) si sono alquanto ammorbidite, tanto da non spaventare né il direttore generale del Fondo monetario internazionale (Fmi) Dominique Strauss Kahn, né quello dell'Organizzazione mondiale del commercio (Wto) Pascal Lamy. Il riflusso dell'idea di rivoluzione si registra peraltro anche altrove, persino nelle formazioni più radicali. A questo punto la destra si è impossessata del termine, che a quanto pare può ancora suscitare speranze, per farne un sinonimo di restaurazione e smantellamento delle tutele sociali conquistate e spesso strappate all'«ordine costituito». Le grandi rivoluzioni sono sotto accusa per la loro violenza. Si inorridisce, ad esempio, per i massacri delle guardie svizzere nell'agosto 1792 (in occasione della presa delle Tuileries), della famiglia imperiale russa a Ekaterinburg nel luglio 1918, o degli ufficiali dell'armata di Chang Kai Shek nel 1949, dopo la presa del potere da parte dei comunisti cinesi. Meglio sarebbe stato però non aver fatto passare sotto silenzio in precedenza le vittime della fame durante l'Ancien Régime, sullo sfondo dei balli a Versailles e delle decime estorte dal clero; o la strage di manifestanti inermi, abbattuti a centinaia dai soldati di Nicola II durante una «domenica rossa» del gennaio 1905; o la sorte dei rivoluzionari di Canton e Shangai, che nel 1927 furono gettati vivi nelle caldaie delle locomotive.Per non parlare delle violenze quotidiane dell'ordine sociale imposto.L'episodio dei rivoluzionari arsi vivi ha lasciato il segno non solo su chi si è interessato alla storia della Cina, ma anche sui milioni di lettori de La condition humaine di André Malraux. Per decenni, i maggiori scrittori e artisti hanno fatto corpo col movimento operaio per celebrare le rivoluzioni, «les lendemains qui chantent». Anche a costo di sminuire le delusioni e le tragedie consumate nella luce livida dell'alba (polizia politica, culto della personalità, campi di lavoro, esecuzioni). In compenso, da trent'anni a questa parte praticamente non si parla d'altro; il tema è anzi raccomandato per garantirsi buoni risultati all'università, o per brillare nel mondo della stampa o all'Académie.«La Rivoluzione è sinonimo di irruzione della violenza - spiega lo storico di successo Max Gallo. Le nostre società sono estremamente fragili. La principale responsabilità di chi ha accesso alla parola pubblica è di mettere in guardia contro quest'irruzione». Dal canto suo, Furet giudica totalitario o terroristico qualunque tentativo di trasformazione radicale, concludendo che « è diventato quasi impossibile pensare all'idea di un'altra società». È facile intuire che quest'impossiblità non dispiace affatto alla maggior parte dei suoi lettori, ben protetti dalle intemperie nelle loro esistenze allietate da cene e dibattiti. «...Ma le canzoni più belle erano le nostre» Anche indipendentemente da un Max Gallo o da un François Furet, la fobia antirivoluzionaria (col suo corollario, la legittimazione dell'ordine costituito) ha avuto a disposizione ben altri mezzi di comunicazione: basti pensare alle scelte dei media, cinema compreso. Da trent'anni il messaggio è sempre lo stesso: al di fuori delle democrazie liberal-liberiste non si trova nient'altro che regimi tirannici e reciproche connivenze.Al patto germano-sovietico vengono riservati ad esempio spazi molto maggiori che ad altre alleanze contro natura - quali ad esempio gli accordi di Monaco, o la stretta di mano tra Adolf Hitler e Neville Chamberlain. Il nazista e il conservatore avevano, quanto meno, un terreno d'intesa nel comune odio verso i fronti popolari. E fu la stessa paura di classe a ispirare gli aristocratici di Ferrara e gli industriali della Ruhr per favorire l'ascesa al potere di Benito Mussolini e del III Reich. È ancora permesso di ricordarlo?In questo caso, possiamo andare avanti... Persino un personaggio come Léon Blum, rispettato dai maestri di virtù, che ha teorizzando in termini drastici il suo rifiuto di una rivoluzione di tipo sovietico (definita da un suo amico «blanquismo in salsa tartara») si interrogava fin dal 1924 sui limiti di una trasformazione sociale fondata sul solo talismano del suffragio universale: «Non possiamo escludere che nel momento in cui ritenessero gravemente minacciati i loro principi essenziali, i rappresentanti e i dirigenti della società attuale sarebbero pronti ad abbandonare il terreno della legalità». Da allora non sono mancate le trasgressioni di questo tipo: dal pronunciamiento di Francisco Franco nel 1936 al colpo di stato di Augusto Pinochet nel 1973, senza dimenticare il rovesciamento di Mohammad Mossadeq nel 1953 in Iran. Peraltro, il leader socialista sottolineava che in Francia «la Repubblica non fu proclamata in virtù di un voto legale espresso nelle forme costituzionali, ma insediata per volontà del popolo insorto contro la legalità esistente». Il suffragio universale, sempre invocato per squalificare ogni altra forma di intervento collettivo (tra cui gli scioperi dei servizi pubblici, assimilati a sequestri di ostaggi), doveva diventare l'alfa e l'omega di ogni azione pubblica. Eppure i dubbi di Blum al riguardo sono del tutto attuali, quando ad esempio si domanda «se il suffragio universale sia oggi una realtà a pieno titolo. L'influenza di padroni e proprietari non pesa forse sugli elettori, con la pressione dei poteri del denaro e della grande stampa? Ogni elettore è davvero libero quando esprime il suo voto, libero per la cultura del suo pensiero e la sua indipendenza personale? O per liberarlo non servirebbe precisamente una rivoluzione?». Qualcuno obietta che in tre paesi europei - Olanda, Francia e Irlanda - il verdetto delle urne ha pur sempre sventato le pressioni congiunte del padronato, dei poteri economico-finanziari e della stampa. E difatti, proprio per questo non è stato tenuto in alcun conto...«Abbiamo perso tutte le battaglie, ma le canzoni più belle erano le nostre». Questa frase, attribuita a un combattente repubblicano spagnolo riparato in Francia dopo la vittoria di Franco, riassume a suo modo il problema dei conservatori e della loro uggiosa pedagogia della sottomissione. In parole semplici, le rivoluzioni lasciano nella storia e nella coscienza umana una traccia indelebile anche quando falliscono, anche quando vengono disonorate. Di fatto, esse incarnano quel momento raro in cui la fatalità si solleva e il popolo prende il sopravvento. Da qui la loro risonanza universale. Ciascuno a suo modo, gli ammutinati della Potemkin, i superstiti della Lunga Marcia, i barbudos della Sierra Maestra hanno risuscitato quel gesto dei soldati dell'anno II che ha fatto dire allo storico Eric Hobsbawn: «La Rivoluzione francese ha rivelato la potenza del popolo in maniera tale che nessun governo ha mai potuto permettersi di dimenticarla - non foss'altro che per il ricordo di un esercito improvvisato di coscritti privi di addestramento, eppure vittoriosi contro la potente coalizione formata dalle più esperte truppe d'élite delle monarchie europee». Ma non si tratta solo di un «ricordo»: il vocabolario politico moderno, così come una buona metà dei sistemi giuridici mondiali, si ispirano al codice inventato dalla Rivoluzione. E pensando al terzomondismo degli anni '60 ci si può chiedere se una parte della sua popolarità in Europa non fosse nata dal riconoscimento (e dal senso di riconoscenza) cui ha dato vita. Sembrava allora che al Sud potesse rinascere l'ideale dei Lumi - rivoluzionario, egualitario, emancipatore - anche grazie ai vietnamiti, algerini, cinesi o cileni che si sono formati nel Vecchio continente. Prevenire le restaurazioni conservatrici nate dal sapere L'impero si impantanava, alcune ex colonie entravano in lizza, la rivoluzione andava avanti. La situazione attuale è diversa. L'emancipazione della Cina o dell'India, la loro affermazione sulla scena internazionale suscitano qua e là curiosità e simpatia, ma non destano speranze «universali», fondate ad esempio sull'uguaglianza, sui diritti degli oppressi, su un diverso modello di sviluppo, sulla preoccupazione di prevenire restaurazioni conservatrici indotte dal sapere e dallo spirito elitario.A livello internazionale, l'America latina suscita più entusiasmi in ragione del suo orientamento politico, democratico ma al tempo stesso anche sociale. In questi ultimi vent'anni, una certa sinistra europea ha giustificato la priorità assegnata alle esigenze dei ceti medi teorizzando la fine della «parentesi rivoluzionaria», col dissolvimento politico delle categorie popolari. Per converso, in Venezuela o in Bolivia, le forze di governo le hanno mobilitate, dimostrando di farsi carico della loro sorte, ridestando in esse la speranza di un diverso destino storico: insomma, la lotta continua.Per quanto auspicabili, le rivoluzioni sono eventi rari, dato che presuppongono varie condizioni: la disponibilità all'azione di una massa di scontenti; uno stato contestato nella sua autorità e legittimità da una parte dei suoi abituali sostenitori (per la sua imperizia economica o militare, o perché paralizzato fino allo sfascio da divisioni interne); e infine una base preesistente di idee di radicale contestazione dell'ordine sociale, che sebbene estremamente minoritarie all'inizio potranno offrire un appiglio a chi ha visto dissolversi le passate convinzioni o adesioni. La storica americana Victoria Bonnell ha studiato i movimenti operai di Mosca e San Pietroburgo alla vigilia della prima guerra mondiale: l'unico caso in cui questa fascia sociale è stata protagonista di una rivoluzione «riuscita». Anche per questo le sue conclusioni meritano di essere citate: «La coscienza rivoluzionaria è caratterizzata dalla convinzione che esista un solo modo per superare le ragioni del malcontento: trasformare le istituzioni esistenti, instaurando una diversa organizzazione sociale». Come dire che questa coscienza non sorge spontaneamente, ma può nascere solo da una mobilitazione politica, preceduta da una fase di fermento intellettuale.Di fatto, in generale - come dimostra peraltro l'attualità - le rivendicazioni dei movimenti sociali sono inizialmente difensive, volte a ristabilire un contratto sociale che si ritiene violato dai padroni, produttori terrieri, banchieri o governanti. Si chiede il pane, il lavoro, l'alloggio, lo studio, un progetto di vita. Non (ancora) «un futuro radioso», ma l'«immagine di un presente liberato dai suoi aspetti più dolorosi». Solo in un secondo tempo, quando appare evidente l'incapacità delle forze dominanti di far fronte agli obblighi che legittimano il loro potere e i loro privilegi, si incomincia a chiedersi, anche al di là dei circoli militanti, «se i re, i capitalisti, i preti, i generali, i burocrati abbiano ancora un'utilità sociale».A questo punto si può parlare di rivoluzione. La transizione da una fase all'altra può essere rapida - due anni nel 1789, pochi mesi nel 1917 - o non verificarsi mai.Per quasi due secoli, milioni di militanti politici o sindacali, storici e sociologi hanno esaminato le variabili da prendere in considerazione: la classe dirigente è divisa e demoralizzata? L'apparato repressivo è intatto? Le forze sociali che aspirano al cambiamento sono organizzate e in grado di cooperare? Il contributo più corposo a queste ricerche è stato fornito dagli Stati uniti: numerosi ricercatori si sono adoperati per comprendere le rivoluzioni, anche riconoscendo tutte le loro conquiste, pur di scongiurarne la spaventosa prospettiva.L'attendibilità di queste ricerche si è rivelata ... aleatoria. Nel 1977 ci si preoccupava innanzitutto dell'«ingovernabilità» delle società capitaliste, interrogandosi nel contempo sui motivi della stabilità dell'Urss. Per quest'ultimo caso le spiegazioni abbondavano: preferenza dei dirigenti e della popolazione sovietica per l'ordine e la stabilità; socializzazione collettiva a sostegno dei valori del regime; natura non cumulativa dei problemi da risolvere, con la conseguenza di una maggior possibilità di manovra per il partito unico; il conforto di buoni risultati economici e di un miglioramento del tenore di vita; lo status di grande potenza, ecc. Al politologo di Yale Samuel Huntington, già immensamente celebre, non rimaneva quindi che trarre da questa messe di indizi concordanti la conclusione seguente: «Nessuna delle sfide previste nei prossimi anni appare qualitativamente diversa da quelle a cui il sistema sovietico è già riuscito a rispondere». Sappiamo tutti com'è andata a finire....
Autore: Serge Halimi

domenica 28 giugno 2009

Immigrants : le rêve brisé

Wirepullers: ecco cosa c'è concretamente dietro questa stretta di mano. Il dramma dei profughi nel servizio di Paris Match.

Ils ont pris tous les risques pour échapper à la misère. Sous les yeux de nos reporters, ils ont été débarqués en Libye. L’Italie ne prend pas de gants avec les clandestins.

Il croyait quitter l’enfer, il y est replongé. L’Italie le reconduit sur le continent qu’il a fui avec ses 79 compagnons d’infortune. Pour la première fois, des immigrés africains sont refoulés à la matraque et remis à la brutalité des geôliers libyens, sous les yeux de nos reporters. En 2008, 36 900 « naufragés » se sont échoués aux abords de l’île de Lampedusa. Pour endiguer ce flux, Silvio Berlusconi a fait voter une loi, au mépris des droits de l’homme, qui requalifie la demande d’asile en délit passible de dix-huit mois de prison. L’an passé 3 immigrés sur 4 avaient déposé une demande d’asile politique : 50 % avaient été acceptées. Depuis, un accord a été signé avec Kadhafi, les expulsés sont ramenés à Tripoli sans que leur sécurité et leur dignité les plus élémentaires ne soient garanties. Mais il n’y a pas de barrage contre la misère. A Tripoli, il n’y aura plus de photographe pour témoigner…

L’échelle ! Il faut saisir ce morceau de ferraille et s’extraire du canot pneumatique en panne. Il se dégonfle, tangue et, dans la mauvaise houle, cogne contre le flanc du navire de la Guardia di Finanza. Cette échelle, c’est le chemin le plus court entre l’Afrique et l’Europe. Entre la misère et l’espoir. Au fond du Zodiac à la dérive, prostrée, coincée, il y a une fille dont on ne voit que les yeux écarquillés. Regard épouvanté... La bousculade au bas de l’échelle, l’assaut pour échapper à l’épave, l’abordage de la détresse a quelque chose de dantesque. Effrayant, même pour les marins du « Bovienzo », qui n’en sont pas à leur premier sauvetage de désespérés en Méditerranée. L’un d’eux crie : « Attendez ! Un seul à la fois ! » Ça ne sert à rien. Quelle discipline ? Ce sont des survivants. Les ordres du commandant Christian Acero n’ont pas plus d’effet. De toute façon, sa voix rocailleuse est couverte par le hurlement du rotor d’un hélicoptère qui survole la scène. Le commandant est excédé : « Il va se tirer de là, celui-là ? » Un membre d’équipage abat sa matraque sur les barreaux de l’échelle pour tenter de dissuader les rescapés de se ruer tous en même temps. Ils s’en foutent, de sa matraque. C’est la mer qui fait peur, pas les hommes et les matraques. Ils montent, comme ils peuvent, les uns sur les autres, au risque de tomber à la mer. De se noyer. Et l’angoisse s’empare de l’équipage du « Bovienzo ».

Les premiers sont à bord. Ils s’assoient aussitôt, se calent, dos contre la tôle du cockpit. Jambes étendues, bras ballants, le souffle court. Personne ne se couche. Sauf Adill. Il a titubé, s’est écroulé. Maintenant, il rampe en gémissant pour se rapprocher d’Amal, un autre rescapé coiffé d’un chapeau beige, son ami. Amal le prend dans ses bras, l’étreint. Adill nous dévisage, ses lèvres tremblent. « De l’eau », demande Amal. On lui tend une bouteille. Discrètement, il asperge Adill. Puis la bouteille passe de main en main. En quelques secondes, elle est vide. Ils n’en finissent pas d’envahir le pont. Combien sont-ils ? Dix, vingt, trente... Et ça continue. Les marins leur ordonnent de se serrer pour faire de la place à ceux qui embarquent. Ils dirigent les hommes vers l’avant – ils sont maintenant soixante-huit – et les femmes vers l’arrière, elles sont douze. ­Quatre-vingts êtres humains en errance depuis des jours et des nuits dans ce maudit Zodiac, que les marins du « Bovienzo » vont couler sans récupérer ce qui flotte dans le fond. Il ne reste rien qui vaille : des tissus en lambeaux, des tee-shirts souillés, une bouteille en plastique vide. Ils n’avaient plus rien. Ni eau, ni nourriture, ni essence. Pour arriver en Sicile, ils auraient dû parcourir encore plus de 100 milles nautiques. Sans vivres, pas la moindre chance. « On leur a sauvé la vie », murmure un membre de l’équipage. Pour lui, c’est un sauvetage. Le commandant se tait, allume une cigarette. Et s’en va reprendre la barre du navire...

Sur le pont, Amal aide Adill à reprendre ses esprits. Adill est né en 1983. « Le 1er avril, dit-il. Je suis designer. Je veux travailler, aller à l’école dans n’importe quel pays en Europe. Je ferai tout ce que vous voulez. » Il gesticule, Amal le calme. Amal est ghanéen, il a 26 ans. Il vient de passer quatre années en Libye, le temps de gagner 1 500 dollars, le prix de la traversée. Il veut rejoindre son frère en Espagne. De sa tentative de traversée, il n’aime pas parler. Il faut presque lui arracher chaque mot. Un inconnu qu’il a rencontré au marché de Tripoli lui a proposé un embarquement. De nuit, Amal est monté dans un pick-up avec d’autres Africains. On lui a bandé les yeux. Il s’est retrouvé dans une maison où on lui a pris son argent. Ensuite, une plage, le Zodiac, le départ...

Aucun ne peut évaluer le temps passé en mer

« Combien de temps avez-vous passé en mer ? » Amal ne sait plus. Un de ses compagnons, en tee-shirt orange, une boucle à l’oreille, lève la main, deux doigts tendus, et dit : « Trois jours. Ensuite, plus d’essence. » Lui, il s’appelle Franck. Les yeux rougis, les lèvres boursouflées et fendues à cause du soleil et du sel, il est aussi confus que les autres. Quelqu’un affirme que le voyage a duré cinq jours. Un marin réplique que c’est impossible : « Après cinq jours dans ces conditions, personne n’a plus la force de parler. » Aucun d’eux ne semble capable d’évaluer avec exactitude le temps passé en mer. Ils ont une histoire toute faite qu’ils ont répétée sur le Zodiac, à débiter à la police et aux juges. Une histoire incroyable de long voyage, de guide tombé à la mer qu’une jeune Nigériane aux cheveux ébouriffés nous raconte. Elle s’appelle Gift, porte un jean délavé et me demande ce qui va se passer maintenant.

Je lui réponds ce que j’ai déjà vu, ce dont je suis persuadé. Ce à quoi elle s’attend, d’ailleurs. Direction le quai de Porto Nuovo à Lampedusa, où la Croix-Rouge, Caritas et l’UNHCR s’occuperont d’eux. Ils se verront offrir du thé, des biscuits, des couvertures, une assistance légale, des soins, des vêtements et même une carte téléphonique. Toute l’Afrique sait que ceux qui échouent à Lampedusa sont traités comme des naufragés, non comme des clandestins. Même si ça exaspère la plupart des habitants de l’île, qui n’aiment pas voir défiler chez eux toute la misère du monde et détestent que leur rivage se transforme en cimetière à ciel ouvert. Mais tout de même, l’ordinaire humanité. Le minimum de solidarité, de charité. Alors, à Gift et aux autres, je dis : « Ne vous inquiétez pas... Ne vous inquiétez pas... ».

Pourtant, inquiet, je vais l’être moi-même : en remontant dans la cabine de pilotage, j’apprends que la destination a changé. Lampedusa est à une heure de mer, à l’ouest. Et la ­vedette de la Guardia di Finanza ­navigue plein sud. La nuit tombe, il commence à faire froid. Les rescapés affaiblis sont frigorifiés, manquent de sommeil. Ils ont faim. « Hier, dit Amal, il a plu, on est encore tout trempés. » Il tire sur la cigarette qu’on lui a donnée, puis la passe à ses compagnons. Un homme frêle demande à manger. Il n’aura rien. Un autre, vêtu du maillot de Francesco Totti, de l’AS Roma, réclame des vêtements secs. Il n’y en a pas. Pas plus que des couvertures. Partout sur le pont, des silhouettes assises ou allongées, enveloppées dans des morceaux d’étoffe crasseux. Des pieds dépassent. L’odeur est forte, écœurante. Mieux vaut ne pas imaginer comment quatre-vingts personnes se soulageaient en mer. Parfois, l’un d’eux se lève pour aller vomir. Un marin l’accompagne.

A l’arrière, un militaire napolitain distribue aux femmes des bouteilles d’eau et des biscuits fourrés au chocolat, et du coton pour se boucher les oreilles. Elles sont installées au-dessus des deux moteurs de 3 000 chevaux chacun. Il fait moins froid qu’à l’avant, mais le bruit est insupportable.

Gift est accroupie, le regard vide, fichu sur la tête. Elle a enfoui ses mains dans les poches de sa veste. Elle a une rage de dents et ne peut rien avaler. Un instant, elle s’extirpe de cet état semi-comateux, contemple le ciel, la lune sur bâbord, l’étoile Polaire qui brille à l’étrave. « Where are we going ? » demande Gift. Où ­allons-nous ? Elle n’obtient pas de ­réponse. Minuit. Deux bateaux de la Guarda Costiera sont en vue. Ils transportent eux aussi des clandestins. Par radio, le commandant du « Bovienzo » demande des couvertures de survie et une aide médicale. Quelques minutes plus tard, le médecin parvient à monter à bord. Sans couvertures de survie. Petit homme crispé, au visage fermé, le Dr Arturo est coiffé d’un béret et vêtu de l’uniforme rouge de l’ordre de Malte (Corpo italiano soccorso di Malta). Il porte une mallette de médicaments. De quoi remettre tout le monde d’aplomb. Il ne parle qu’italien ; ­Enrico, notre photographe, et moi-même lui servons d’interprètes. Deux malades ont trouvé refuge sous le Zodiac du « Bovienzo ». « Fuel burn », dit l’un en désignant ses parties génitales. « Mes gants sont sales », répond le toubib. Il me demande de sortir de son sac un produit en spray. Il en asperge le sexe du patient, qui grimace avant de reboutonner son jean.

Les autres clandestins comprennent que le produit apaise ses souffrances. L’essence s’était répandue dans l’épave où ils sont restés assis sans bouger pendant de longues heures, baignant dans le carburant. Ils souffrent de brûlures aux fesses. Ils se lèvent les uns après les autres, baissent leur pantalon, présentent leurs fesses. Ceux qui en ont encore la force en rient. Un Sénégalais en blouson zippé noir dit, en français, qu’il a la nausée et vomit sans arrêt. « On verra ça plus tard », répond le médecin. Quelqu’un souffre de maux de tête. « Depuis combien de temps ? – Deux mois. – Je ne peux rien faire, je ne suis là que pour les urgences. » Un autre ouvre un vieux sac en plastique, montre deux fioles vides. « Mes médicaments, dit-il. Je suis asthmatique et il n’y a plus de médicaments dans mon pays. Mon père m’a dit d’aller... – De quoi souffre-t-il ? » interrompt le médecin avant de se détourner. « Allons voir les femmes... » L’une d’elle a mal, à l’évidence. Elle touche ses flancs et sa poitrine en grimaçant. Elle ne parle pas anglais et Gift n’a plus la force de traduire. Le docteur l’ausculte un instant, soupire et passe à la voisine, qui baisse son pantalon : « Fuel burn »...

Gift mentionne sa rage de dents. « On verra après », lance de nouveau le médecin. Après quoi ? Il ne répondra pas. Des larmes coulent sur les joues de Gift. Le médecin achève sa tournée : « Je ne peux quand même pas m’occuper de tout le monde ! » A mon intention, il ajoute : « C’est toujours comme ça, ils se plaignent des irritations dues à l’eau de mer. Ceux-là ont quand même plutôt l’air en bonne santé. » Je lui rends sa mallette. Elle était bourrée de compresses, de seringues et de médicaments qui n’ont servi à rien. Au moins, il a apporté des sacs-poubelle. Les marins les distribuent. Les hommes les découpent et les enfilent comme des blouses. A l’arrière, les femmes, blotties les unes contre les autres, s’en servent de couvertures.

Autore: Francois de Labarre

Fonte: www.parismatch.com/Internazionale

giovedì 25 giugno 2009

Iran: il colpo di stato della coppia Ahmadinejad-Khamenei

Wirepullers: cosa ci possono dire le rivolte iraniane del passato su quanto sta avvenendo oggi a Teheran? Perchè Cina, Russia e Cuba non mostrano ai propri cittadini la rivolta del popolo iraniano e si limitano a celebrare la scabrosa vittoria di Ahmadinejad? Perchè il movimento di protesta innescato dal leader dell'opposizione Moussavi probabilmente non otterrà nulla? E perchè, se dovesse invece rovesciare il duo Ahmadinejad-Khamenei, i regimi dell'area mediorientale dovrebbero iniziare ad avere paura? Tutto questo negli articoli di Newsweek, The New Republic e Internazionale. In più un dietro le quinte dei giochi di potere interni che hanno caratterizzato le elezioni, con Limes. (4)

L'ultimo atto della guerra tra le due anime del clero al potere. La campagna elettorale e la svolta dei confronti televisi. La partecipazione al voto. Il ruolo del figlio della guida spirituale. Rafsanjani vuole sostituire Khamenei con una guida collegiale e molti ayatollah lo sostengono. Una possibile soluzione.

“La colpa dello Shah era che dichiarava: Vale solo ciò che dico io e non quello che vuole il popolo. Oggi chiunque si comportasse così, compirebbe un’azione destabilizzante e deprecabile.” (Da un discorso della Guida Suprema Khomeini a Qom nel lontano 21 marzo del 1979).

In questi giorni, qui a Teheran i mezzi di comunicazione sono più che mai scarsi. La tv di stato è al servizio di pochi ed è controllata direttamente dalla guida suprema, l’ayatollah Khamenei. I pochi quotidiani sono sotto il controllo della censura del Ministero delle Informazioni, vale a dire la polizia politica. mentre i giornali indipendenti sono stati chiusi per ordine di giudici compiacenti. A parte qualche tv satellitare, anche quella disturbata (sempre da parte del Ministero) per impedire una ricezione accettabile, per avere informazioni su quello che accade qui e nel mondo l’unico mezzo di comunicazione rimane Internet, più che mai rallentata e con quasi tutti i siti politici oscurati. Le pagine della rete si sfogliano faticosamente solo grazie a programmi che aiutano ad aggirare i filtri realizzati dal Ministero. Riusciamo ad avere notizie anche con i cellulari (quando funzionano) e possiamo avere un’idea di ciò che sta succedendo in questo paese.
Chi, in questi giorni avesse passeggiato per le strade di Teheran avrebbe visto che la folla inferocita, insieme ai cassonetti, a qualche autobus e qualche motocicletta dei poliziotti dei corpi speciali, bruciava anche le foto di Ahmadinejad e della guida suprema con quel suo sorriso gentile e quell’espressione da buon padre di famiglia. La scena rievocava gli avvenimenti di trent’anni fa, quando il regnante di turno era lo Scià. Oggi, per il mondo intero, gli occhi increduli di una giovane sul punto di morire, simboleggiano un punto di svolta dell’immagine della Repubblica Islamica. Si chiamava Neda Agha Soltan, aveva ventisette anni e studiava filosofia. Era tra i manifestanti scesi in piazza per reclamare il diritto di conoscere quale fine avesse fatto il proprio voto. È stata colpita al cuore da un proiettile sparato da un basiji.
Questi occhi simboleggiano l’ultimo capitolo di una lotta tra due anime che si sono affrontate fin dalla nascita della Repubblica Islamica e non si sono mai risparmiate colpi bassi. Le elezioni presidenziali del 12 giugno 2009 sono state il punto di svolta di questa lunga storia.
Con il discorso di Khamenei, alla preghiera di venerdi, è stata messa la parola fine a una convivenza apparentemente pacifica tra le due anime del clero.
La storia della lotta tra le due anime, suddivise in varie fazioni, nasceva ai tempi di Khomeini, fondatore e padre spirituale della Repubblica Islamica. I protagonisti attuali di questa vicenda, tranne Ahmadinejad, che, all’epoca, era ventenne, sono quasi tutti i pochi fondatori della Repubblica rimasti.
Queste elezioni sono state molto particolari. La campagna elettorale è iniziata qualche mese fa con toni molto tiepidi e gente molto svogliata. Si poteva solo prevedere un astensionismo da record. La notizia della candidatura dell’ex-presidente Khatami, nello schieramento progressista ha dato però nuova linfa e vitalità alla campagna elettorale. Le cose si sono messe in movimento.

Gli altri candidati erano Akbar Aa’lami, ex-parlamentare riformista, Mehdi Karrubi, ex-presidente del Majlis (il parlamento), Mohsen Rezai ex-comandante dei pasdaran e membro del Consiglio dei Guardiani della Rivoluzione e lo stesso presidente uscente, Mahmud Ahmadinejad. Quando Khatami ha iniziato la sua campagna elettorale, la risposta della popolazione delusa da Ahmadinejad, è stata straordinaria. Ma Khatami, minacciato da coloro che si sentivano in pericolo, con l’arrivo del candidato Mussavi, ex-primo ministro durante la guerra contro l’Iraq, ha deciso di ritirarsi e appoggiare quest’ultimo. I sostenitori di Khatami sono rimasti delusi, ma, con il tempo, è stato chiaro che la strategia dei riformisti era quella giusta. Era chiaro ed evidente che Ahmadinejad non sarebbe riuscito a contrastare l’offensiva dei riformatori, che, contro i conservatori, oltre a Mussavi, avevano schierato anche Karrubi, che insieme ai voti delle minoranze etniche, essendo un clericale, poteva raccogliere anche quelli di una parte del clero. Il terzo candidato, Aa’lami, più estremista, avrebbe potuto prendere voti dai dissidenti e nella regione dell’Azerbaijan, in quanto azero ed ex-rappresentante di Tabriz in parlamento. Come era prevedibile, Aa’lami non è riuscito però a passare il setaccio rigido delle selezioni governative sui candidati e, per i riformisti, sono rimasti in campo solo Mussavi e Karrubi. Nello schieramento opposto, per affrontare il pericolo di crollo e per raccogliere i voti del malcontento dell’area dei conservatori, è sceso in campo in campo Rezaei, molto critico delle posizioni di Ahmadinejad, particolarmente sul piano economico.I canditati che si opponevano al presidente uscente, nonostante non avessero accesso ai mezzi di comunicazione e si trovassero senza l’appoggio dei giornali, hanno iniziato, dunque, alla luce dei risultati deludenti del precedente governo, un lavoro capillare di propaganda grazie a Internet e hanno trovato terreno fertile per raccogliere il consenso popolare.
Le due più importanti strutture militari, l’esercito dei pasdaran e i basiji, nonostante la legge vieti loro di interferire nella politica, si sono schierate apertamente con il presidente uscente. I generali dei pasdaran hanno rilasciato molte dichiarazioni che accusavano i riformatori di essere al servizio dell’imperialismo, del sionismo e di voler organizzare una sorta di rivoluzione di velluto. Hanno dichiarato inoltre che per difendere i valori della Rivoluzione non avrebbero esitato a usare la forza.

La Guida – molto attenta a non schierarsi apertamente con il suo candidato prediletto – invitava tutti a essere moderati nei toni per non dare una mano ai nemici dell’islam, che non aspettavano altro per mettere sotto accusa le conquiste della Repubblica Islamica.
Per dare una parvenza di democrazia sono stati organizzati anche sei confronti televisivi tra i candidati.
Durante questi confronti televisivi le cose hanno preso una nuova piega. La tattica di Ahmadinejad era la stessa che lo aveva portato al potere nelle precedenti elezioni: fare la vittima, attaccare tutti con il suo linguaggio populista, sostenere che i suoi avversari erano al servizio del diabolico e corrotto Rafsanjani, arricchitosi alle spalle dei diseredati. Un attacco così evidente e violento alla terza carica istituzionale dello Stato era una cosa senza precedenti. Era chiaro che non avrebbe osato usare questo linguaggio contro uno dei pilastri della Repubblica Islamica senza il placet della Guida. Ovviamente, Rafsanjani ha protestato, ha chiesto di poter replicare alle accuse in tv, ma è stato inutile. Per tutta la campagna, Ahmadinejad ha continuato a usare questa tattica, mentre i suoi avversari lo accusavano di aver distrutto l’economia, portato il paese con il suo linguaggio rude e populista all’isolamento internazionale e rovinato l’immagine della nazione e della Repubblica Islamica. E' stato anche accusato di malversazione e di allegra gestione dei fondi governativi provenienti dalla vendita del petrolio, per un ammanco di un miliardo di dollari, accertato dalla Corte dei Conti. A causa di una cattiva gestione ha sperperato decine di miliardi di dollari, i proventi del petrolio, riuscendo ad aumentare la povertà, la disoccupazione e l’inflazione in un periodo in cui il prezzo del petrolio era salito a 150 dollari al barile. E' stato premiato con tempi supplementari di apparizione e di propaganda dalla tv di Stato, senza che i suoi avversari godessero della stessa opportunità.
Questo atteggiamento si è rivelato controproducente e i suoi avversari politici ne hanno beneficiato. Molti che avevano dichiarato di non voler andare a votare, di fronte alla prospettiva di una sua rielezione, hanno deciso di turarsi il naso e hanno scelto il male minore. Così il 12 di giugno c'è stata una partecipazione senza precedenti che ha superato anche lo storico risultato delle presidenziali in cui fu eletto Khatami.Il giorno delle elezioni la partecipazione è stata straordinaria. Per raggiungere l’urna erano necessarie mediamente tre ore. Ma tutti lo hanno fatto volentieri. Nel pomeriggio alcuni seggi hanno iniziato a chiudere le porte, con la motivazione che le schede elettorali erano esaurite. In alcuni seggi la gente ha rotto le porte per entrare. Sono quindi iniziate a circolare voci su brogli elettorali.
I primi risultati parziali del conteggio non quadravano e, il mattino dopo, quando sono stati dichiarati i risultati ufficiali, si è compreso che era in atto un vero colpo di mano. I brogli erano troppo grossolani. In centinaia di seggi avevano votato fino al 140% degli aventi diritto. Karrubi aveva ottenuto meno voti del numero dei militanti del suo partito. Un numero risibile con l’intento solo di umiliarlo. Nel frattempo, prima che si rendessero pubblici i risultati definitivi, il responsabile dell’ufficio informatico delle elaborazioni dei dati del Ministero dell’Interno, mandava i risultati al candidato Mussavi. I risultati erano diversi. Risultava che Mussavi aveva superato i 19 milioni di voti e il funzionario consigliava al presidente neo-eletto di preparare i festeggiamenti e il discorso alla nazione. Ma come sappiamo, le cose sono andate diversamente. Qualche giorno dopo, quello stesso funzionario, Mohammad Asghari, moriva in un incidente stradale.Mussavi ha dichiarato subito di essere lui il presidente eletto: ma l’annuncio contrario della guida suprema, l’ayatollah Khamenei, ancor prima che l’organo preposto, il Consiglio dei Guardiani, ratificasse la regolarità delle elezioni, ha gelato tutti. Questo fu il momento della vera e profonda spaccatura delle anime della Repubblica Islamica. Khamenei aveva scelto di percorrere una strada senza ritorno. E aveva le sue ragioni. Innanzitutto voleva sbarazzarsi della vecchia guardia, di quelli che non gli davano molto credito. In primis il suo vecchio e fidato amico Rafsanjani, colui che aveva caldeggiato la sua candidatura nel 1988 e si era adoperato per innalzarlo al ruolo che tuttora ricopre. Dopo la morte di Khomeini, il triangolo formato da Khamenei, Rafsanjani e il figlio maggiore di Khomeini, Ahmad, era riuscito in questo intento. I patti non furono rispettati da Khamenei. Ahamad Khomeini moriva in circostanze poco chiare, quasi subito, e la presenza di Rafsanjani restava una spina nel fianco. Inoltre gli altri grandi ayatollah non lo hanno mai accettato. Khamenei non era un ayatollah e per occupare questo ruolo era stata promulgata una legge ad personam che cambiava la Costituzione. Khamenei, che ha vissuto per anni nell’ombra di Khomeini, è malato e vecchio e vorrebbe vedere sul suo trono Mojtaba, suo figlio maggiore ed eminenza grigia della corte. Quest'ultimo sta ultimando i suoi studi di teologia con l’ayatollah Mojtahedi, con lezioni a domicilio. Mojtaba ha raggiunto il grado di mojtahed (giureconsulto) Tra qualche anno potrebbe essere nominato ayatollah e diventare il successore del padre. Ahmadinejad è l’alleato giusto: per tutti gli anni della sua presidenza ha dimostrato una cieca obbedienza. Insieme ai pasdaran, che in questi anni hanno visto accrescere il loro potere economico e politico, formano un triangolo perfetto. Sono indispensabili l’uno all’altro. Sono consapevoli che la sconfitta di uno significherebbe la sconfitta di tutti. I pasdaran in questi anni hanno fatto passi da giganti. Nel governo di Ahmadinejad hanno avuto un ruolo chiave. Quasi il 30% dei posti di comando è nelle loro mani. Hanno ottenuto gli appalti più grossi, senza concorrenti e con gare a trattative dirette. Hanno rinforzato il loro indiscusso ruolo primario nel traffico di contrabbando delle merci e il loro fatturato in questo settore supera i 12 miliardi di dollari. Hanno il controllo di tutte le industrie militari ad alta tecnologia e dei contratti per costruire gasdotti, piattaforme petrolifere, grandi dighe, autostrade e ferrovie. Senza avere concorrenti. Con questo sistema gestiscono una holding che manipola interessi per decine di miliardi di dollari e senza l'appoggio di un eventuale governo poco compiacente, avrebbero molto da perdere.La situazione internazionale richiede un atteggiamento fermo. Vogliono essere loro a gestire le trattative con gli Stati Uniti.
Sono consapevoli dell’importanza del ruolo geopolitico dell'Iran e con gli Stati Uniti in difficoltà hanno deciso che è il momento di trattare con Washington e ottenere in cambio garanzie per mantenersi al potere.
Sabato mattina, la gente si è resa conto che era in atto un colpo di Stato. Il servizio di trasmissione degli sms era fuori uso da qualche giorno. Alle 17.00 le forze anti-sommossa si sono schierate nelle strade e alle 19.000 sono state messo fuori uso le comunicazioni con i telefonini. Le operazioni sono state dirette da Mojtaba, figlio maggiore di Khamenei, in stretti rapporti di affari con i pasdaran. Domenica alla manifestazione di protesta hanno partecipato tre milioni di persone. La polizia è intervenuta e molte persone sono rimaste ferite. Lunedì la polizia ha avuto l’ordine di sparare. Il resto è cronaca.
Gli arresti dei capi carismatici dell’opposizione sono iniziati sabato sera, poi è stata la volta dei quadri intermedi e di tutti coloro che avevano un ruolo organizzativo. Il movimento è stato decapitato ma ha continuato ad operare. Le manifestazioni di protesta, anche senza capi, si sono succedute. Il colore verde, che è il colore dei sostenitori di Mussavi, è diventato il colore di tutta l’opposizione.Sono stati arrestati a centinaia tra manifestanti, sindacalisti e studenti. Khamenei ha deciso di scendere in campo direttamente. Per la preghiera del venerdì ha scoccato la sua ultima freccia contro i vecchi alleati, che, durante la cerimonia, hanno schierato in prima fila il peso della loro assenza. Ha dichiarato che Ahmadinejad era il suo prescelto e ha invitato tutti a comportarsi saggiamente e ad accettare il dato di fatto. Ha tolto ogni dubbio circa le sue intenzioni.
La cosa non è piaciuta a nessuno. Rafsanjani ha scritto una lettera a Khamenei e si è attivato per portare avanti con Khatami il suo vecchio progetto: sostituire la guida con un comitato di reggenza. E' andato a Qom e ha contattato i grandi dignitari e i grandi ayatollah. Sembra che sia riuscito ad avere il consenso di almeno cinquanta personaggi importanti. Intanto, l’ayatollah Montazeri, critico da sempre nei riguardi di Khamenei, da questi estromesso e segregato agli arresti domiciliari, ha dichiarato tre giorni di lutto nazionale.Rafsanjani, nelle sua lettera, ha scritto che sono stati messi in discussione i principi fondamentali della Repubblica ed è la fine per tutti, innanzitutto per Khamenei, che, in qualsiasi caso, è perdente. Se annulla le elezioni perderebbe la faccia, ma se continua a sostenere Ahmadinejad si mette contro milioni di iraniani che reclamano il loro voto.
Khamenei sembra deciso a portare avanti la sua linea fino in fondo. Non pare che abbia altra scelta.

Ha tentato di fermare Rafsanjani, perfino arrestando nel corso di una manifestazione la figlia, il nipote e altri due parenti, con l’accusa di fomentare la gente alla rivolta, ma ha dovuto rilasciarli due giorni dopo.
Intanto i rapporti diplomatici con la Gran Bretagna, accusata di fomentare i disordini, sono precipitati. Il presidente Obama dichiara, molto cautamente di essere umanamente dalla parte dei contestatori. Dopo che il Consiglio dei Guardiani ha dichiarato che c’è stato un errore di conteggio di solo 3 milioni di voti, certamente non sufficiente per annullare le elezioni, Khamenei ha concesso altri cinque giorni di tempo per approfondire le ragioni dei non eletti, forse per prendere tempo, forse per una sorta di arretramento dalle precedenti posizioni. Rezai, in un comunicato, ha dichiarato la sua fedeltà alla Guida Suprema e, nell’interesse della nazione e dell’islam in un momento cosi critico. ha ritrattato le sue rimostranze e rinunciato a contendere. Ma si prospetta un'altra soluzione: un presidente convinto o costretto a dare le dimissioni per il bene della patria, per amore verso la guida spirituale e per salvare l’islam.
Oggi, ci troviamo di fronte a un movimento trasversale di milioni di individui, tanto anomalo quanto straordinario. Un movimento senza capi carismatici e senza una precisa e definita connotazione ideologica. Per la prima volta nella storia iraniana dell’ultimo secolo assistiamo a un movimento non diretto da capi religiosi ma che ha, al suo interno, molti religiosi. Giungono notizie che alcuni generali dei pasdaran siano stati arrestati per essersi rifiutati di prendere parte alla repressione.Forse, dopo tanti tentativi, è la volta buona per gli iraniani per sperimentare la vera democrazia?I giochi sono ancora aperti.

Autore: Jafar Naderi

Iran, una sfida storica contro il potere

Wirepullers: cosa ci possono dire le rivolte iraniane del passato su quanto sta avvenendo oggi a Teheran? Perchè Cina, Russia e Cuba non mostrano ai propri cittadini la rivolta del popolo iraniano e si limitano a celebrare la scabrosa vittoria di Ahmadinejad? Perchè il movimento di protesta innescato dal leader dell'opposizione Moussavi probabilmente non otterrà nulla? E perchè, se dovesse invece rovesciare il duo Ahmadinejad-Khamenei, i regimi dell'area mediorientale dovrebbero iniziare ad avere paura? Tutto questo negli articoli di Newsweek, The New Republic e Internazionale. In più un dietro le quinte dei giochi di potere interni che hanno caratterizzato le elezioni, con Limes. (3)

Secondo Rami Khouri le proteste di Teheran vanno molto oltre i risultati delle elezioni.

Le proteste di questi giorni in Iran hanno scatenato una serie di interpretazioni sul significato di quel che sta accadendo. Dotti studiosi, diplomatici navigati e altri esperti, che sanno ben poco dell’Iran e della regione, hanno espresso le loro opinioni, fondate per lo più su congetture e pregiudizi, anziché su dati di fatto che partano da una conoscenza anche vaga del contesto e dei protagonisti. Pazienza: i grandi eventi storici sopportano anche questo.

In Iran sta succedendo qualcosa di fondamentale. Siamo di fronte a un evento senza precedenti nell’Iran contemporaneo, dai tempi della rivoluzione islamica del 1979 che ha rovesciato lo Scià.
Ma siamo anche di fronte a un fenomeno da inquadrare in un contesto più ampio: quello degli esseri umani che non amano vedersi trattare come imbecilli dai loro governi, e quando capita oppongono resistenza. Succede di continuo, in tanti paesi del mondo: degli esseri umani evidentemente maltrattati dai loro governi insorgono e rifiutano di sopportare ancora.

In questi ultimi decenni migliaia di persone sono scese in piazza sfidando gli ordini del governo in Indonesia, Filippine, Ucraina e molti altri stati, dove le richieste popolari hanno costretto dei dittatori a dimettersi. La manifestazione più recente di questo fenomeno – quella iraniana di questi giorni – nasce dalla contestazone dei risultati delle elezioni presidenziali. Ma è solo la causa occasionale, una specie di molla che ci proietta nel più vasto mondo dell’agire politico.

Tutti sanno che il vero potere in Iran non è in mano al presidente e che nel sistema iraniano le elezioni contano poco. Le proteste non riguardano i risultati elettorali di per sé, ma gli abusi che i comuni cittadini, uomini e donne, sentono di aver subìto. Gli iraniani che animano le proteste di questi giorni sono soprattutto giovani nati dopo la rivoluzione islamica del 1979: di conseguenza non sempre condividono la reverenza verso l’élite rivoluzionaria dei centri di potere del paese.

I giovani iraniani sono parte dell’ultima generazione di mediorientali che chiedono di essere trattati da cittadini portatori di diritti e di dignità. Non sono particolarmente interessati a quel che dice la Guida suprema Ali Khamenei, e quindi con ogni probabilità continueranno a protestare contro un governo oppressivo che, per il modo in cui ha annunciato i risultati del voto, li ha trattati come schiavi inetti, facendogli pensare di aver partecipato a una farsa.

In Iran le élite esercitano un controllo molto forte sulle leve del potere economico, militare, ideologico, burocratico e poliziesco. E questo rende ancor più significative le proteste. Considerato il ruolo iraniano nella regione mediorientale, è possibile che queste manifestazioni si estendano al resto dell’area.

Dei due avvenimenti che più hanno influito sull’intero Medio Oriente nelle ultime generazioni – la sconfitta dei paesi arabi nella guerra del giugno 1967 e la rivoluzione iraniana del 1979 – probabilmente è la seconda che sul lungo periodo ha avuto le conseguenze più profonde.
L’Iran è cruciale per il suo influsso ideologico, il supporto logistico che assicura ai movimenti islamisti del mondo arabo, e il fatto che Teheran guida il “fronte della resistenza” composto da tutte le forze della regione che sfidano gli Stati Uniti, Israele e i regimi arabi conservatori.

Se l’Iran torna a lanciare proteste politiche di massa, o addirittura un cambiamento rivoluzionario, questo avrà un impatto enorme su tutto il Medio Oriente. I popoli arabi si sentiranno a disagio a vedere che gli iraniani, in trent’anni, hanno sfidato per ben due volte un regime autoritario, mentre loro si mostrano passivi e ubbidienti con regimi politici antidemocratici e autoritari, che trattano i cittadini come idioti e li ingannano con elezioni farsa.

I particolari degli eventi iraniani di questi giorni sono specifici della cultura politica di quel paese, dominato da un’élite ossessionata dalla segretezza che oggi sembra in preda a gravi divisioni, e dove entra in gioco anche un profondo divario generazionale. Ma le manifestazioni spontanee di massa in cui si sfidano le strutture del potere non sono una caratteristica esclusiva dell’Iran.

Se questa si dimostrerà una sfida seria lanciata alla legittimità stessa del sistema di governo della repubblica islamica, anziché solo una protesta contro il modo in cui sono state gestite le elezioni presidenziali, non dovremo stupirci di vedere il precedente iraniano contagiare altre zone, stavolta arabe, del Medio Oriente. Come la rivoluzione islamica del 1979 non è mai riuscita a fare.
Autore: Rami Khouri

The Ministry of Love-Hate

Wirepullers: cosa ci possono dire le rivolte iraniane del passato su quanto sta avvenendo oggi a Teheran? Perchè Cina, Russia e Cuba non mostrano ai propri cittadini la rivolta del popolo iraniano e si limitano a celebrare la scabrosa vittoria di Ahmadinejad? Perchè il movimento di protesta innescato dal leader dell'opposizione Moussavi probabilmente non otterrà nulla? E perchè, se dovesse invece rovesciare il duo Ahmadinejad-Khamenei, i regimi dell'area mediorientale dovrebbero iniziare ad avere paura? Tutto questo negli articoli di Newsweek, The New Republic e Internazionale. In più un dietro le quinte dei giochi di potere interni che hanno caratterizzato le elezioni, con Limes. (2)

A new form of totalitarianism is being born in Iran. Why—and what—Big Brother is watching.

Dictators all over the world have been watching Iran for lessons learned. Will the crackdown crush the opposition? Will the streets win out? Is there, perhaps, a Green or Orange or Velvet Revolution of some sort waiting to challenge them, too? They know that somewhere buried in their young and restive populations are the seeds of such a thing. And they also know just how tenuous their power will become if they have to face massive, measured, relentless demonstrations of the kind that changed the face of Iran last week.

The Arab regimes in the neighborhood, which are almost all presidential dynasties or monarchies, appear especially confused by the spectacle of vast passive resistance. It's the one kind of challenge they've never had to face. There's no history of, nor particular respect for the ways of Mahatma Gandhi and Martin Luther King in a culture where honor is vital and violence is considered the best way to uphold it. The new Iranian revolution, if by some chance it wins out, could change all that.

"I hate to say it," says a political activist in Jordan who asked not to be named specifically saying this, "but the Persians are always out in front of the Arabs, whether they are making Islamic revolution or this passive resistance." Egypt, Syria, Morocco, Bahrain, and even the Palestinian struggle with Israelcould be transformed by what U.S. President Barack Obama called "a peaceful and determined insistence" on civil and human rights.

But a defeat of the street in Iran will shoot down such hopes. So the mass-market media in most of the Arab world have carried relatively limited coverage of the demonstrations against the allegedly rigged Iranian elections. Most leaders have even congratulated Mahmoud Ahmadinejad, the Iranian president that they love to hate in private, on his reelection victory. The most telling reactions, however, come from those governments that are, or used to be (and perhaps still wish they were) totalitarian. Cuban television broadcast extensive reports on Ahmadinejad's victory, nothing on the protests. And Moscow? Julia Ioffe noted on The New Republic's Web site, "This just doesn't look like a rigged election to Russians, because Russians don't rig their elections; they engineer them."

And then there are the Chinese. The specter of Tiananmen still haunts the Beijing leadership after 20 years, and the idea of a replay fueled this time by the Internet and cell phones clearly horrifies the old guard. So last week, with littler fanfare but a pervasive impact, propaganda authorities issued an emergency notice telling Chinese newspapers and Web sites to cut back their coverage of events in Iran. According to the South China Morning Post, based in Hong Kong, major portals like Sina.com dropped the news agencies' video and deleted comments, replacing them with material from the official People's Daily and Xinhua news service. Beijing must have been nervous.

Yet, for the moment at least, it would seem the totalitarians past and present are winning. Passive resistance is being smashed in Iran, and that may signal the success, once again, of something much more insidious and repressive than mere dictatorship.

"Totalitarian" is, in fact, one of those words that's been applied so often to so many governments that it doesn't seem to mean much any more. But back in the middle of the 20th century, when George Orwell wrote the bleak, iconic novel 1984, he had a profound sense of the evil that men did when they sought to control every aspect of a nation's and a people's life. For those who have the chance to see it, there is a dramatization called George Orwell—A Celebration playing in London just now. And parts of it, especially the interrogation-indoctrination scene from the closing pages of the novel, bring home this point like nothing else I've seen recently—except the videos out of Iran. Day by day, even as less and less news leaks past the human censors and inhuman digital filters, we can see still make out the shadowy outlines of a new totalitarian state aborning. And this is something new.
Perhaps you thought this was always true in Iran, but it wasn't, quite. The reign of terror that followed the revolution 30 years ago had come to seem a fading nightmare. The regime, even under President Mahmoud Ahmadinejad, had become one that could accommodate many views. It was restrictive and sometimes capricious, but it allowed most people to breathe and get on with their lives. When right-wing American pundits anxious to discredit Muslims everywhere talked about "Islamofascism," the Iranian reality tended to give the lie to their arguments, not confirm them. Now, sadly, all that is changing.

"In our world there will be no emotions except fear, rage, triumph and self-abasement," says the state interrogator in the 1984 Ministry of Love, which is the ministry of hate. The message is beaten into the society until all resistance, even mental resistance, is broken. As the protagonist of Orwell's novel finally surrenders, he lets himself believe that "Freedom is slavery," that "two and two make five," if the state tells him so, and that "God is Power." He learns to love Big Brother.

That was the kind of love, based on lies and fear, that the old totalitarian governments learned to expect from their populations. That is the kind of love the leaders of Iran's government seem to want from their people today. No wonder the Russians, the Chinese and the Cubans are cheering them on.

Autore: Christopher Dickey
Fonte: www.newsweek.com

A History of Violence

Wirepullers: cosa ci possono dire le rivolte iraniane del passato su quanto sta avvenendo oggi a Teheran? Perchè Cina, Russia e Cuba non mostrano ai propri cittadini la rivolta del popolo iraniano e si limitano a celebrare la scabrosa vittoria di Ahmadinejad? Perchè il movimento di protesta innescato dal leader dell'opposizione Moussavi probabilmente non otterrà nulla? E perchè, se dovesse invece rovesciare il duo Ahmadinejad-Khamenei, i regimi dell'area mediorientale dovrebbero iniziare ad avere paura? Tutto questo negli articoli di Newsweek, The New Republic e Internazionale. In più un dietro le quinte dei giochi di potere interni che hanno caratterizzato le elezioni, con Limes. (1)

On the eve of the centennial of Iran's first modern revolution, the country is experiencing the latest in a series of popular eruptions against an oppressive government. It was 100 years ago this month that Iranian freedom fighters were marching on Tehran to depose an autocrat they could no longer abide. By mid-July 1909, this army of varied tribal, ethnic, and secular democratic mujahedin would capture the capitol and send the Qajar monarch, Muhammad Ali Shah, packing to Russia, placing his young son on the throne of a revived but still infant constitutional monarchy. Iran's early democracy, however, expired within two years because of reactionary pressures and the revolutionaries' inability to live up to their principles, a fact that should instill some caution regarding attempts to discern the many twists and turns such challenges to an existing order in Iran can take.

Since the late 19th century, the major civil disturbances that have repeatedly roiled Iran have shared a number of features that can put the prospects of the current anti-government demonstrations into perspective. Though there are many factors that have influenced the outcomes of past Iranian protests--including the strength of opposition leaders and complaints about foreign domination --history indicates that the most important factor affecting the success of nationwide dissent is the perceived strength of Iran's security forces. Unfortunately, this history does not bode well for the Iranians now demanding a greater voice in how they are governed.

The Qajar-era Iranian military, who unsuccessfully tried to fend off the assault on Tehran in 1909, was under-funded, poorly trained and equipped, badly led, and often sympathetic with the mujahedin fighting for the constitution. Though the army grew stronger in the following decades, the short-lived autonomous republics of Gilan in 1920-21 and Azerbaijan and Mahabad (Iranian Kurdistan) in 1945-46 were able to overcome the Iranian armed forces with the support of Soviet Red Army units.

By the time that the last shah of Iran, Muhammad Reza Shah Pahlavi, battled Grand Ayatollah Ruhollah Khomeini in the 1970s, the Imperial Iranian Armed Forces were large, well-armed, and lavishly funded. But they were undermined by the vacillating monarch's shifts between repression and accommodation, which included the punishment of some security officials for their harsh measures. The shah's undercutting of his generals aggravated their already poor leadership and hurt the morale of the junior officers and enlisted men.

More important, Khomeini's revolutionaries used an array of clever tactics to neutralize the armed forces. Successful attacks on the security forces showed that the regime was vulnerable, and often intentionally provoked government reactions that incited more unrest. Khomeini also ordered his followers to embrace the military rank-and-file and bring them to the revolutionaries' side through fraternization and propaganda. Additionally, in more of a choke hold than an embrace, intimidation and psychological warfare were used to undermine the troops' loyalty. There were echoes of both of these tactics during the fourth day of this month's protests when some of the demonstrators offered flowers to security force personnel shortly before other protestors attacked a paramilitary base.

In the past, the armed forces have not uniformly supported the ruling Islamic Republic. For much of the 1990s, the senior commanders of the Islamic Revolutionary Guard Corps (IRGC), the main pillar of the clerical government, could not be certain of the rank-and-file's loyalty. During anti-regime riots in Qazvin in 1994, for example, some IRGC units refused to carry out commands to use force to reestablish order. And most of the security services, sharing the views of their families and peers, seemed to have supported former president Mohammad Khatami, the moderate cleric who sought to reform Iran's government. In the 1997 presidential election, for example, they voted for Khatami in percentages similar to the rest of the country.

In response to this lack of loyalty, the regime developed various new units, including special male and female Basij paramilitary units, to handle violent unrest. The clerics relied on poor Iranians--who were still beholden to the regime for subsidies, work, and religious guidance--to staff these units, which have been trained and equipped for riot control and containing internal unrest. These Basij units, which back up the national police service, are the firebreak against serious regime threatening unrest.

Despite regime efforts since the 1999 student riots to inoculate the security services against divided loyalties, the prospect cannot be discounted. The current IRGC commander, Mohammad Ali Jafari, publicly announced last year a reform program for the Guard that aimed to revive its revolutionary spirit, and an official IRGC statement on the eve of the election rejected the suggestion that there was a gap between Guard commanders and their personnel. But leading up to the election, 59 former senior IRGC officers publicly announced their support for presidential candidate and current opposition leader Mir Hosein Mousavi, and former Guard commander and defeated conservative presidential candidate Mohsen Rezai has joined Mousavi in demanding that the election results be overturned.

Finally, throughout Iran's modern history civil disturbances have achieved the most when the government leadership was perceived as fragile or uncertain. Muzzafar al-Din Shah, the initial target of the 1905-1911 revolution, was dying when he agreed to Iran's first constitution and legislature in 1906. The celebrated former prime minister Mohammad Mossadeq, who won renown by besting the British and nationalizing Iran's oil over the shah's objections in the early 1950s, had become increasingly autocratic by 1953, which had estranged him from much of his political base and left him vulnerable to a coup by his pro-shah enemies in the military and among the Iranian elite. Muhammad Reza Shah Pahlavi was sick with cancer and an increasingly indecisive leader as he faced off against the iron-willed Khomeini.

Iran's current leader, the 70-year-old Supreme Leader Ayatollah Ali Khamenei, has enjoyed the strong backing of the IRGC as he has consolidated power over the past 20 years. The overt support for him shown by the security forces will be one of the most important indicators of where he stands with the Iranian people--and, in turn, will provide some insight into how bold they can be in pressing for change.

Autore: Steven R. Ward