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lunedì 29 giugno 2009

Elogio delle rivoluzioni

Wirepullers: prima l'Iran, adesso l'Honduras. Le rivolte popolari sembrano essere tornate di moda (o forse non sono mai passate) e la memoria va inevitabilmente alla rivoluzione francese. Cosa spinge un popolo a scendere in piazza e a rischiare la vita per dire basta a chi lo governa? Cosa portano in eredità le rivolte del popolo? Ci sarà sempre il rischio di una rivoluzione? Vediamo come sono nate le rivoluzioni del passato, quelle più recenti e cosa sta succedendo nel piccolo stato del Centro America. (1)

A duecentoventi anni dal 1789 qualcosa ancora si muove nel corpo della Rivoluzione. E dire che alla cerimonia del bicentenario, François Mitterrand aveva convocato Margaret Thatcher e Joseph Mobutu a presenziare alla chiusura della sua bara. E poiché la ricorrenza veniva a coincidere con l'anno della caduta del muro di Berlino, Francis Fukuyama annunciò «la fine della storia»; o in altri termini, la perennità del dominio liberista sul mondo intero e la fine, secondo lui irrevocabile, dell'ipoteca rivoluzionaria. Ora però la crisi del capitalismo ha dato un nuovo scossone alla legittimità delle oligarchie al potere. L'aria è più leggera - o più pesante, a seconda delle preferenze. Dopo aver espresso il suo sconforto davanti agli «intellettuali e artisti che incitano alla rivolta», Le Figaro osserva che «a quanto pare François Furet si era sbagliato: la Rivoluzione francese non è ancora finita».Eppure lo storico in questione - al pari di numerosi altri - non aveva risparmiato gli sforzi per esorcizzarne il ricordo, e sgombrare il campo da ogni tentazione del genere. Se in altri tempi era considerata come espressione di una necessità storica (Marx), di una «nuova era della storia» (Goethe), di un'epopea inaugurata dai soldati dell'anno II cantati da Victor Hugo - «in marcia, scalzi e superbi sul mondo abbacinato» - oggi si mettono in evidenza solo le sue mani insanguinate: un'utopia egualitaria, terroristica e virtuosa, che da Rousseau fino a Mao non avrebbe fatto altro che calpestare le libertà individuali per partorire il gelido mostro dello stato totalitario. Fino alla riscossa e alla vittoria della «democrazia», gioviale, pacifica e di mercato - anch'essa erede di rivoluzioni, ma di un altro ordine: all'inglese o all'americana, più politiche che sociali, «decaffeinate». In realtà, anche al di là della Manica avevano decapitato un re.Ma la resistenza dell'aristocrazia era stata meno vigorosa che in Francia, e la borghesia non aveva sentito il bisogno di allearsi col popolo per insediare il proprio dominio. Negli ambienti più favoriti questo modello, depurato dai sanculotti scalzi, appariva più distinto e meno inquietante. E dunque Laurence Parisot, presidentessa degli industriali francesi, non ha tradito le posizioni di chi l'ha eletta confidando a un giornalista del Financial Times: «Adoro la storia di Francia, ma non la Rivoluzione. Fu un atto di violenza estrema di cui soffriamo ancora. Perché ha costretto ognuno di noi a schierarsi».E ha poi aggiunto: «Da noi la pratica della democrazia non ha lo stesso successo che in Inghilterra». «Schierarsi»: la polarizzazione sociale è nefasta, soprattutto in tempi di crisi, quando si dovrebbe mostrarsi solidali con l'azienda in cui si lavora, il suo proprietario, il suo marchio - anche se ovviamente ciascuno deve restare al posto suo. Di fatto, chi non vede di buon occhio la Rivoluzione le rimprovera non tanto la sua violenza - fenomeno tristemente banale nella storia - quanto lo sconvolgimento dell'ordine sociale (infinitamente più raro) conseguente a una guerra tra ricchi e proletari.Nel 1988 il presidente George Herbert Bush, alla ricerca di un affondo micidiale per stendere l'avversario democratico Michael Dukakis (un tecnocrate del tutto inoffensivo) lo accusò di «voler dividere il paese in classi: cose che possono andar bene per l'Europa, ma non certo per l'America!» Il classismo negli Usa! Quale abominevole accusa! Tanto che a distanza di vent'anni, nel momento in cui le condizioni dell'economia americana sembrano imporre sacrifici diseguali, come lo erano i passati benefici (un verso dell'Internazionale ingiunge ai ladri di «rendre gorge» - cioè di restituire il maltolto) l'attuale inquilino della Casa bianca si affretta a disinnescare la rabbia popolare: «Una delle lezioni più importanti da trarre da questa crisi è che la nostra economia funziona solo se siamo uniti e coesi. (...) Non possiamo permetterci di vedere un demonio in ogni investitore o imprenditore che cerchi di realizzare un profitto». Contrariamente a quanto asseriscono alcuni dei suoi avversari repubblicani, Barack Obama non è un rivoluzionario...«La rivoluzione è innanzitutto rottura. Chi non accetta di rompere con l'ordine costituito, con la società capitalista, non può aderire al partito socialista.» Così parlava François Mitterrand nel 1971.Da allora le condizioni di adesione a questo partito (Ps) si sono alquanto ammorbidite, tanto da non spaventare né il direttore generale del Fondo monetario internazionale (Fmi) Dominique Strauss Kahn, né quello dell'Organizzazione mondiale del commercio (Wto) Pascal Lamy. Il riflusso dell'idea di rivoluzione si registra peraltro anche altrove, persino nelle formazioni più radicali. A questo punto la destra si è impossessata del termine, che a quanto pare può ancora suscitare speranze, per farne un sinonimo di restaurazione e smantellamento delle tutele sociali conquistate e spesso strappate all'«ordine costituito». Le grandi rivoluzioni sono sotto accusa per la loro violenza. Si inorridisce, ad esempio, per i massacri delle guardie svizzere nell'agosto 1792 (in occasione della presa delle Tuileries), della famiglia imperiale russa a Ekaterinburg nel luglio 1918, o degli ufficiali dell'armata di Chang Kai Shek nel 1949, dopo la presa del potere da parte dei comunisti cinesi. Meglio sarebbe stato però non aver fatto passare sotto silenzio in precedenza le vittime della fame durante l'Ancien Régime, sullo sfondo dei balli a Versailles e delle decime estorte dal clero; o la strage di manifestanti inermi, abbattuti a centinaia dai soldati di Nicola II durante una «domenica rossa» del gennaio 1905; o la sorte dei rivoluzionari di Canton e Shangai, che nel 1927 furono gettati vivi nelle caldaie delle locomotive.Per non parlare delle violenze quotidiane dell'ordine sociale imposto.L'episodio dei rivoluzionari arsi vivi ha lasciato il segno non solo su chi si è interessato alla storia della Cina, ma anche sui milioni di lettori de La condition humaine di André Malraux. Per decenni, i maggiori scrittori e artisti hanno fatto corpo col movimento operaio per celebrare le rivoluzioni, «les lendemains qui chantent». Anche a costo di sminuire le delusioni e le tragedie consumate nella luce livida dell'alba (polizia politica, culto della personalità, campi di lavoro, esecuzioni). In compenso, da trent'anni a questa parte praticamente non si parla d'altro; il tema è anzi raccomandato per garantirsi buoni risultati all'università, o per brillare nel mondo della stampa o all'Académie.«La Rivoluzione è sinonimo di irruzione della violenza - spiega lo storico di successo Max Gallo. Le nostre società sono estremamente fragili. La principale responsabilità di chi ha accesso alla parola pubblica è di mettere in guardia contro quest'irruzione». Dal canto suo, Furet giudica totalitario o terroristico qualunque tentativo di trasformazione radicale, concludendo che « è diventato quasi impossibile pensare all'idea di un'altra società». È facile intuire che quest'impossiblità non dispiace affatto alla maggior parte dei suoi lettori, ben protetti dalle intemperie nelle loro esistenze allietate da cene e dibattiti. «...Ma le canzoni più belle erano le nostre» Anche indipendentemente da un Max Gallo o da un François Furet, la fobia antirivoluzionaria (col suo corollario, la legittimazione dell'ordine costituito) ha avuto a disposizione ben altri mezzi di comunicazione: basti pensare alle scelte dei media, cinema compreso. Da trent'anni il messaggio è sempre lo stesso: al di fuori delle democrazie liberal-liberiste non si trova nient'altro che regimi tirannici e reciproche connivenze.Al patto germano-sovietico vengono riservati ad esempio spazi molto maggiori che ad altre alleanze contro natura - quali ad esempio gli accordi di Monaco, o la stretta di mano tra Adolf Hitler e Neville Chamberlain. Il nazista e il conservatore avevano, quanto meno, un terreno d'intesa nel comune odio verso i fronti popolari. E fu la stessa paura di classe a ispirare gli aristocratici di Ferrara e gli industriali della Ruhr per favorire l'ascesa al potere di Benito Mussolini e del III Reich. È ancora permesso di ricordarlo?In questo caso, possiamo andare avanti... Persino un personaggio come Léon Blum, rispettato dai maestri di virtù, che ha teorizzando in termini drastici il suo rifiuto di una rivoluzione di tipo sovietico (definita da un suo amico «blanquismo in salsa tartara») si interrogava fin dal 1924 sui limiti di una trasformazione sociale fondata sul solo talismano del suffragio universale: «Non possiamo escludere che nel momento in cui ritenessero gravemente minacciati i loro principi essenziali, i rappresentanti e i dirigenti della società attuale sarebbero pronti ad abbandonare il terreno della legalità». Da allora non sono mancate le trasgressioni di questo tipo: dal pronunciamiento di Francisco Franco nel 1936 al colpo di stato di Augusto Pinochet nel 1973, senza dimenticare il rovesciamento di Mohammad Mossadeq nel 1953 in Iran. Peraltro, il leader socialista sottolineava che in Francia «la Repubblica non fu proclamata in virtù di un voto legale espresso nelle forme costituzionali, ma insediata per volontà del popolo insorto contro la legalità esistente». Il suffragio universale, sempre invocato per squalificare ogni altra forma di intervento collettivo (tra cui gli scioperi dei servizi pubblici, assimilati a sequestri di ostaggi), doveva diventare l'alfa e l'omega di ogni azione pubblica. Eppure i dubbi di Blum al riguardo sono del tutto attuali, quando ad esempio si domanda «se il suffragio universale sia oggi una realtà a pieno titolo. L'influenza di padroni e proprietari non pesa forse sugli elettori, con la pressione dei poteri del denaro e della grande stampa? Ogni elettore è davvero libero quando esprime il suo voto, libero per la cultura del suo pensiero e la sua indipendenza personale? O per liberarlo non servirebbe precisamente una rivoluzione?». Qualcuno obietta che in tre paesi europei - Olanda, Francia e Irlanda - il verdetto delle urne ha pur sempre sventato le pressioni congiunte del padronato, dei poteri economico-finanziari e della stampa. E difatti, proprio per questo non è stato tenuto in alcun conto...«Abbiamo perso tutte le battaglie, ma le canzoni più belle erano le nostre». Questa frase, attribuita a un combattente repubblicano spagnolo riparato in Francia dopo la vittoria di Franco, riassume a suo modo il problema dei conservatori e della loro uggiosa pedagogia della sottomissione. In parole semplici, le rivoluzioni lasciano nella storia e nella coscienza umana una traccia indelebile anche quando falliscono, anche quando vengono disonorate. Di fatto, esse incarnano quel momento raro in cui la fatalità si solleva e il popolo prende il sopravvento. Da qui la loro risonanza universale. Ciascuno a suo modo, gli ammutinati della Potemkin, i superstiti della Lunga Marcia, i barbudos della Sierra Maestra hanno risuscitato quel gesto dei soldati dell'anno II che ha fatto dire allo storico Eric Hobsbawn: «La Rivoluzione francese ha rivelato la potenza del popolo in maniera tale che nessun governo ha mai potuto permettersi di dimenticarla - non foss'altro che per il ricordo di un esercito improvvisato di coscritti privi di addestramento, eppure vittoriosi contro la potente coalizione formata dalle più esperte truppe d'élite delle monarchie europee». Ma non si tratta solo di un «ricordo»: il vocabolario politico moderno, così come una buona metà dei sistemi giuridici mondiali, si ispirano al codice inventato dalla Rivoluzione. E pensando al terzomondismo degli anni '60 ci si può chiedere se una parte della sua popolarità in Europa non fosse nata dal riconoscimento (e dal senso di riconoscenza) cui ha dato vita. Sembrava allora che al Sud potesse rinascere l'ideale dei Lumi - rivoluzionario, egualitario, emancipatore - anche grazie ai vietnamiti, algerini, cinesi o cileni che si sono formati nel Vecchio continente. Prevenire le restaurazioni conservatrici nate dal sapere L'impero si impantanava, alcune ex colonie entravano in lizza, la rivoluzione andava avanti. La situazione attuale è diversa. L'emancipazione della Cina o dell'India, la loro affermazione sulla scena internazionale suscitano qua e là curiosità e simpatia, ma non destano speranze «universali», fondate ad esempio sull'uguaglianza, sui diritti degli oppressi, su un diverso modello di sviluppo, sulla preoccupazione di prevenire restaurazioni conservatrici indotte dal sapere e dallo spirito elitario.A livello internazionale, l'America latina suscita più entusiasmi in ragione del suo orientamento politico, democratico ma al tempo stesso anche sociale. In questi ultimi vent'anni, una certa sinistra europea ha giustificato la priorità assegnata alle esigenze dei ceti medi teorizzando la fine della «parentesi rivoluzionaria», col dissolvimento politico delle categorie popolari. Per converso, in Venezuela o in Bolivia, le forze di governo le hanno mobilitate, dimostrando di farsi carico della loro sorte, ridestando in esse la speranza di un diverso destino storico: insomma, la lotta continua.Per quanto auspicabili, le rivoluzioni sono eventi rari, dato che presuppongono varie condizioni: la disponibilità all'azione di una massa di scontenti; uno stato contestato nella sua autorità e legittimità da una parte dei suoi abituali sostenitori (per la sua imperizia economica o militare, o perché paralizzato fino allo sfascio da divisioni interne); e infine una base preesistente di idee di radicale contestazione dell'ordine sociale, che sebbene estremamente minoritarie all'inizio potranno offrire un appiglio a chi ha visto dissolversi le passate convinzioni o adesioni. La storica americana Victoria Bonnell ha studiato i movimenti operai di Mosca e San Pietroburgo alla vigilia della prima guerra mondiale: l'unico caso in cui questa fascia sociale è stata protagonista di una rivoluzione «riuscita». Anche per questo le sue conclusioni meritano di essere citate: «La coscienza rivoluzionaria è caratterizzata dalla convinzione che esista un solo modo per superare le ragioni del malcontento: trasformare le istituzioni esistenti, instaurando una diversa organizzazione sociale». Come dire che questa coscienza non sorge spontaneamente, ma può nascere solo da una mobilitazione politica, preceduta da una fase di fermento intellettuale.Di fatto, in generale - come dimostra peraltro l'attualità - le rivendicazioni dei movimenti sociali sono inizialmente difensive, volte a ristabilire un contratto sociale che si ritiene violato dai padroni, produttori terrieri, banchieri o governanti. Si chiede il pane, il lavoro, l'alloggio, lo studio, un progetto di vita. Non (ancora) «un futuro radioso», ma l'«immagine di un presente liberato dai suoi aspetti più dolorosi». Solo in un secondo tempo, quando appare evidente l'incapacità delle forze dominanti di far fronte agli obblighi che legittimano il loro potere e i loro privilegi, si incomincia a chiedersi, anche al di là dei circoli militanti, «se i re, i capitalisti, i preti, i generali, i burocrati abbiano ancora un'utilità sociale».A questo punto si può parlare di rivoluzione. La transizione da una fase all'altra può essere rapida - due anni nel 1789, pochi mesi nel 1917 - o non verificarsi mai.Per quasi due secoli, milioni di militanti politici o sindacali, storici e sociologi hanno esaminato le variabili da prendere in considerazione: la classe dirigente è divisa e demoralizzata? L'apparato repressivo è intatto? Le forze sociali che aspirano al cambiamento sono organizzate e in grado di cooperare? Il contributo più corposo a queste ricerche è stato fornito dagli Stati uniti: numerosi ricercatori si sono adoperati per comprendere le rivoluzioni, anche riconoscendo tutte le loro conquiste, pur di scongiurarne la spaventosa prospettiva.L'attendibilità di queste ricerche si è rivelata ... aleatoria. Nel 1977 ci si preoccupava innanzitutto dell'«ingovernabilità» delle società capitaliste, interrogandosi nel contempo sui motivi della stabilità dell'Urss. Per quest'ultimo caso le spiegazioni abbondavano: preferenza dei dirigenti e della popolazione sovietica per l'ordine e la stabilità; socializzazione collettiva a sostegno dei valori del regime; natura non cumulativa dei problemi da risolvere, con la conseguenza di una maggior possibilità di manovra per il partito unico; il conforto di buoni risultati economici e di un miglioramento del tenore di vita; lo status di grande potenza, ecc. Al politologo di Yale Samuel Huntington, già immensamente celebre, non rimaneva quindi che trarre da questa messe di indizi concordanti la conclusione seguente: «Nessuna delle sfide previste nei prossimi anni appare qualitativamente diversa da quelle a cui il sistema sovietico è già riuscito a rispondere». Sappiamo tutti com'è andata a finire....
Autore: Serge Halimi

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