Una delle chiavi di lettura più accreditate per spiegare il lancio di missili da parte di Hamas e la assolutamente sproporzionata reazione israeliana è il fatto che sia in Israele che in Palestina le forze politiche interne si contendono aspramente il consenso popolare. Per quanto lo svolgimento delle elezioni palestinesi sia sempre, come la distribuzione di acqua, cibo, medicinali e combustibili, altamente incerto, il mandato del Presidente in carica dell’Autorità Nazionale Palestinese, Mahmoud Abbas, è scaduto il 9 gennaio. Tra i palestinesi, la situazione attuale che prevede il controllo della Cisgiordania da parte di Al Fatah e di Gaza da parte di Hamas, è incerta, e c’è il rischio di una ripresa della guerra civile. Una concorrenza elettorale potrebbe evitare una ripresa delle ostilità. Certa è invece la data delle elezioni israeliane: si terranno il 10 febbraio 2009, e vista la frammentarietà del sistema politico del paese, sembra proprio che nessuno schieramento riuscirà a conquistare abbastanza voti per governare da solo. Due dei tre candidati sono personaggi chiave nel conflitto di oggi: la ministro degli esteri Tzipi Livni, leader del Partito Kadima, e il ministro della difesa Ehud Barak, leader del Partito laburista. Il terzo concorrente, il leader del Likud, Benjamin Netanyahu, al momento all’opposizione, era il favorito dai sondaggi prima dell’inizio delle ostilità, forse perché si era dimesso da ministro degli esteri quando Israele aveva iniziato a ritirarsi da Gaza nel 2005. Ed è forse proprio il tentativo della Livni e di Barak di recuperare voti e di frenare l’ascesa di Netanyahu a spiegare la crudezza della reazione israeliana.
Siamo tutti democratici e benediciamo il momento in cui la parola passa al popolo, specie se di fronte a una crisi. Vox populi vox dei: le elezioni servono a confermare vecchi leader che si sono dimostrati capaci di governare oppure a mandarli a casa nella speranza che i nuovi facciano meglio dei vecchi. Ma queste tradizionali auspici della teoria democratica non valgono in Israele e in Palestina. Arriviamo così al paradosso che l’avvicinarsi delle elezioni, il momento in cui la dialettica politica interna si sviluppa tramite una competizione agonistica piuttosto che antagonistica, scatena la violenza all’esterno. Perché?
Per quanto riguarda il popolo palestinese, anni e anni di stenti, di mancanza di ogni speranza per un degno futuro, hanno rafforzato una leadership, quella di Hamas, capace di riempirsi la bocca di slogan altisonanti ma del tutto disinteressata a offrire soluzioni politiche al conflitto. Mai si è vista nella politica contemporanea una così netta sproporzione tra gli obiettivi dichiarati e la realtà. Hamas nega il diritto all’esistenza allo Stato di Israele ma è del tutto priva di qualsiasi deterrenza militare credibile. Come mai, allora, il popolo palestinese, quando ha potuto esprimersi tramite suffragio, come nelle ultime elezioni legislative del 25 gennaio 2006, ha dato la maggioranza relativa proprio ad Hamas? Se forze politiche più realistiche, come Al Fatah, sono riuscite a ottenere ben misere concessioni da Israele in decenni di mezze trattative, il popolo si è messo nelle mani della forza politica capace di strillare di più.
Strillare, appunto, e non conseguire risultati. Bisogna leggere così la scelta di Hamas di non rinnovare la tregua semestrale con Israele di cui l’Egitto si era fatto mediatore e scaduta il 18 dicembre. Una tregua che, se prolungata almeno fino al 20 gennaio 2009, momento dell’insediamento di Barack Obama alla Casa Bianca, avrebbe potuto consentire una ripresa dei negoziati e conseguire qualche risultato tangibile per migliorare le terribili condizioni di vita in cui versano gli abitanti di Gaza. Ma invece di fare questo banalissimo calcolo politico, per dieci giorni Hamas ha aggiunto alla sua retorica anche il lancio di una sessantina di razzi Kassams. Dal punto di vista militare, questi missili si sono dimostrati inconcludenti, provocando la morte di un cittadino israeliano prima dell’inizio della rappresaglia il 27 dicembre. I botti di Capodanno a Napoli si sono dimostrati altrettanto letali. Dal punto di vista politico, Hamas ha dato il destro al governo israeliano per una nuova e del tutto sproporzionata rappresaglia.
C’è chi ha fatto giustamente notare che l’offensiva dell’esercito israeliano era stata preparata da tempo nei minimi dettagli e che sarebbe ingenuo vederla come una risposta improvvisata per il lancio di qualche razzo. Ma proprio questa considerazione doveva indurre a spostare il conflitto sul versante diplomatico piuttosto che su quello militare. Al di là di ogni ragionamento etico, Hamas ha agito in modo irresponsabile perché ha avviato una escalation che neppure può sostenere.
Bisogna concluderne che Hamas ha agito stupidamente? La realtà è che il lancio dei razzi non va giudicato con il metro della politica estera, bensì con quello della micro-politica interna della lacerata comunità politica palestinese. Hamas sa benissimo che, forzando Israele a una risposta militare, aumenta i propri consensi non solamente nella striscia di Gaza, ma anche in Cisgiordania e tra la popolazione della diaspora palestinese e, più generalmente, in tutto il mondo arabo. Si erige così come vittima del conflitto, mostra che non ci si può attendere nulla di buono dal negoziato e scredita le trattative compiute della Autorità Nazionale Palestinese. Più sarà dura la reazione israeliana e più Hamas ne esce politicamente vittorioso sul fronte interno, riscuotendo un consenso che capitalizzerà anche nel momento in cui si dovessero svolgere libere elezioni tra i palestinesi.
Il privilegio della politica interna
Ma non basta la cinica spregiudicatezza di Hamas per generare una crisi di queste proporzioni. Per litigare bisogna essere in due. Che interesse ha avuto Israele, dunque, a rispondere a una raffica di razzi con un cruento bombardamento aereo? Perché non si è reso conto che così facendo non ha fatto altro che rafforzare le peggiori fazioni palestinesi? Le intenzioni di Hamas sono note a tutti, a cominciare dai sofisticati esperti politici del governo israeliano. Al di là delle considerazioni etiche connesse all’uccisione di almeno centinaia e centinaia di individui, il governo israeliano non si è reso conto che questa rappresaglia ha reso ancora più insicura la propria popolazione, sottoponendola al rischio di una nuova stagione di attentatori suicidi?
Anche in questo caso, la risposta israeliana ha ben poco a che vedere con la politica estera. Ha, invece, molto di più a vedere con le elezioni del 10 febbraio, dove ciascun leader deve dimostrare di essere il più duro con i propri avversari. L’effetto è che, invece di moderarsi a vicenda, si sono esaltati per dimostrare agli elettori che ognuno di loro sarebbe capace di estirpare la minaccia esterna.
Pace e democrazia
Negli ultimi vent’anni, gli studiosi di relazioni internazionali hanno a lungo dibattuto la teoria della pace tra le democrazie; secondo questa ipotesi, è molto poco probabile che due paesi democratici si facciano la guerra. (Mi permetto di rinviare in proposito al mio “Cittadini del mondo. Verso una democrazia cosmopolitica”, Il Saggiatore 2009.) La conclusione è che un regime democratico è una sorta di vaccino contro la guerra, almeno nei confronti di altri regimi altrettanto democratici. Per quanto israeliani e palestinesi abbiano regimi assai diversi (un consolidato sistema democratico i primi, un sistema rappresentativo incerto i secondi, anche per l’assenza di un vero e proprio stato), sembra proprio che il conflitto in Medio Oriente sia un caso che sconfessa la teoria: l’appropinquarsi delle elezioni rende più facile il ricorso alla violenza. Ma se chi è al comando riesce così facilmente a manipolare l’opinione pubblica e, invece di essere punito dalle urne, ne esce addirittura rafforzato, occorre iniziare a dubitare che “vox populi vox dei”. C’è un rimedio? Molte e coraggiose proposte sono state avanzate in quarant’anni di conflitti, sia da israeliani che da palestinesi. Queste proposte sono tutte state ignorate da chi era al comando e, almeno nel caso di Israele, al comando perché eletto dal popolo.
Un film come messaggio di pace
Non c’è oggi ottimismo che sia sorretto dalla politica. Ci si può solo affidare a un film israeliano, “Valzer con Bashir”, che è appena sbarcato nelle sale italiane. Come ha notato il “New York Times”, si tratta allo stesso tempo di un cartone animato, di un documentario, di un film di propaganda politica e di una indagine sulla memoria. E, ovviamente, si basa su una storia vera, quella del regista Ali Folman, giovane soldato israeliano che ha partecipato all’occupazione del Libano del 1982 e fu lì sottoposto al battesimo del fuoco. Persa la memoria, Folman ricerca i ricordi svaniti intervistando dopo un quarto di secolo i suoi vecchi commilitoni.
Mentre le immagini sono figure animate, il sonoro usa le voci reali dei testimoni di quella guerra, e basterebbe questa singolare combinazione per giustificare l’uso di un genere cinematografico dal nome contraddittorio, un “cartone animato – documentario”. Ma questo film è soprattutto un documento storico e politico perché è una delle prime volte in cui un artista israeliano usa l’introspezione non più per ricostruire le tragedie associate all’Olocausto, ma a uno dei tanti conflitti con i vicini arabi. L’episodio che scatena il suo trauma è il fatto che i soldati israeliani assistano inermi, e probabilmente anche conniventi, allo sterminio di circa tremila palestinesi compiuto dai miliziani falangisti libanesi nel campo profughi di Sabra e Shatila. Un trauma, insomma, che scaturisce non dall’essere vittime, ma complici dei carnefici.
Il film è stato acclamato a Cannes, a Londra, a New York e, soprattutto, in Israele. Gli spettatori ne hanno apprezzato un messaggio importante, quello del dolore connesso non solamente alle violenze subite, ma anche per quelle esercitate. È stato un film criticato nel mondo arabo perché la vicenda è descritta utilizzando solamente la voce israeliana, mentre non si ascolta mai la voce delle vittime principali, i palestinesi. Neppure quando sono d’accordo sulla ricostruzione storica gli israeliani e i palestinesi riescono a condividere la propria memoria.
Ma dobbiamo valorizzare quelle voci, come quella di Folman, che faticosamente e nel mezzo delle avversità tentano di uscire dai sentimenti dominanti in Israele. I sondaggi di opinione che circolano in questi giorni dimostrano che il calcolo del governo israeliano si è dimostrato corretto: i Partiti Kadima e Laburista sono entrambi in ripresa a scapito dei conservatori del Likud. L’80 per cento degli israeliani approva senza riserve l’azione militare del governo e addirittura il 95 per cento approva l’azione militare intrapresa a Gaza. Forse l’opinione pubblica ritiene che i 13 morti subiti (tra cui alcuni soldati israeliani uccisi dalla loro stessa artiglieria) siano una perdita accettabile per l’uccisione di oltre 900 palestinesi. Ma chi ha fatto questi conti non ha capito che, al di là della riprovazione dell’opinione pubblica mondiale, gli israeliani porteranno dentro di loro il peso di queste morti per intere generazioni. È senz’altro un trauma vedersi colpiti da razzi, ma è ugualmente un trauma vedere e partecipare a una spietata rappresaglia contro i propri vicini. Ali Folman è ancora lacerato da ciò che ha fatto e visto in Libano nel 1982, e c’è da chiedersi quanti dei soldati israeliani oggi spediti a combattere porteranno dentro di loro gli stessi traumi.
Per quanto riguarda poi la popolazione di Gaza, non si può certo permettere né oggi né in alcun prevedibile futuro il lusso di interrogare il proprio inconscio: l’unica scelta che hanno è quella di morire o sopravvivere in quello che il cardinale Renato Martino ha definito un campo di concentramento.
Autore: Daniele Archibugi
Fonte: www.lostraniero.net
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mercoledì 4 febbraio 2009
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