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domenica 22 novembre 2009

Petrolio e instabilità

Wirepullers: l'Arabia Saudita ha pubblicamente annunciato un imminente abbassamento del prezzo del petrolio, motivando questa politica con l'intenzione di non infierire su un'economia globale già molto traballante. La spiegazione ufficiale però nasconderebbe il tentativo di colpire le casse iraniane, dando un taglio netto alle entrate di Teheran, la cui economia dipende dall'oro nero molto più di quella di Riyadh. I due paesi sono ai ferri corti già da qualche tempo e ne sanno qualcosa in Yemen, ma ora i sauditi, con la benedizione di Washington, hanno deciso di ispirarsi agli anni della guerra fredda, quando fu proprio l'abbassamento del costo del petrolio una delle armi determinanti per dare il colpo di grazia all'Unione Sovietica. Ahmadinejad si sarà guardato molto bene le immagini dei festeggiamenti per la caduta del muro di Berlino. (3)

Il crollo dei prezzi del petrolio, causato dalla contrazione della domanda conseguente alla recessione mondiale, è senz’altro una benedizione per i Paesi occidentali consumatori di greggio. Ma potrebbe rivelarsi, a lungo termine, una maledizione. Per ragioni economiche e, soprattutto, politiche. Innanzitutto, la caduta dei corsi petroliferi – e di quelli del gas, legati al greggio – interrompe i tentativi di sfruttamento di giacimenti dove l’estrazione è difficile e costosa. Infatti, economie occidentali “sazie” di petrolio ormai a buon mercato non hanno più l’incentivo economico a spendere denaro e risorse per estrazioni onerose: con il barile sotto i cinquanta dollari – un terzo di pochi mesi fa – la redditività scompare. In questo modo, ad esempio, non conviene più alle compagnie petrolifere investire nei costosi scisti bituminosi nordamericani, nelle sabbie bituminose del Canada, nel greggio super-pesante dell’Orinoco, nell’ “offshore profondo” nel Golfo del Messico e nel Golfo di Guinea. Eppure, uno studio della Rand Corporation ha valutato la capacità di produzione media dei soli scisti bituminosi del Nord degli Stati Uniti in circa 800 miliardi di barili: il triplo delle riserve saudite. Anche la ricerca di fonti energetiche alternative, il perseguimento di maggiore efficienza energetica o l’aumento della quota di nucleare potrebbero essere “narcotizzati” dai bassi prezzi. Quando la crisi economica in corso sarà superata e la domanda crescerà di nuovo, l’aumento dei prezzi potrebbe essere violento, a causa di un’offerta rigida e senza alternative, scartate perché non redditizie in tempi di abbondanza. Il Financial Times ha scritto al riguardo che “il crollo del prezzo del petrolio è come un analgesico che crea una pericolosa dipendenza: si ottiene un sollievo a breve termine, al costo di un serio danno sul lungo termine”.

Il lato politico del crollo dei prezzi petroliferi è forse ancora più pericoloso. I Paesi produttori sono praticamente tutti monoesportatori, non hanno cioè alternative economiche per produrre benessere. E’ la “maledizione del petrolio”, così definita dal direttore di Foreign Policy ed ex ministro dell’Industria del Venezuela Moisés Naìm: “Il petrolio non è soltanto una risorsa, è una forza capace di orientare la politica interna di una nazione, i suoi rapporti internazionali e persino la sua cultura. In Paesi privi di istituzioni democratiche mature e di un settore pubblico flessibile, il petrolio diventa una maledizione. Genera corruzione, ineguaglianza, disoccupazione e lotte per il potere che si concentrano naturalmente sul controllo della principale industria nazionale. Il petrolio garantisce al governo potere e autonomia, assicura entrate indipendenti dalle tasse”. E’ la storia delle petromonarchie del Golfo Persico, degli esportatori del mondo arabo, dell’Iran, della Nigeria, dell’Angola, del Messico, del Venezuela e della Russia. Questi Stati sono ovviamente fra loro diversissimi, ma li unisce la dipendenza dall’esportazione di materie prime come unico modo per ottenere valuta. Appagati dalle entrate del petrolio e del gas, non hanno mai conosciuto incentivi e stimoli per diversificare le loro economie, il che vincola il benessere di intere popolazioni ai corsi delle materie prime, per definizione fluttuanti. Tutti i Paesi produttori di greggio dipendono in gran parte dagli introiti dell’oro nero per finanziare l’educazione, la sanità, le infrastrutture, il welfare e i sussidi per la disoccupazione, specie quella giovanile. Un netto calo di questi fondi potrebbe creare problemi sociali gravi in Paesi in cui la gran parte della popolazione è rimasta povera e si sono arricchite solo le élite. Ad esempio, le politiche di redistribuzione del Venezuela di Chavez già non avevano molto successo con i prezzi del greggio alle stelle; se, come alcuni economisti prevedono, il barile dovesse crollare a 25 dollari, sarà difficile immaginare un futuro roseo per il “socialismo bolivariano” di Caracas, che ha tra l’altro speso somme enormi per acquistare materiale militare dalla Russia. Così come ha fatto l’Iran, che ha un’inflazione e un tasso di disoccupazione giovanile altissimi e ha varato bilanci espansivi nel tentativo di finanziare lavori pubblici, generare sussidi e creare lavoro. Venezuela e Iran non devono temere il fascino dell’integralismo islamico – per motivi opposti – ma i Paesi arabi sì: se la crisi dovesse costringere le petromonarchie del Golfo a rispedire a casa i giovani immigrati egiziani, giordani e yemeniti che lavorano nella penisola arabica, questi disoccupati, una volta tornati nei loro Paesi e senza prospettive di lavoro, potrebbero contribuire ad alimentare la protesta islamica contro i regimi filoccidentali.

Il caso della Russia presenta quasi un rapporto di causa ed effetto fra fluttuazioni petrolifere e mutamenti politici: dopo il primo shock petrolifero del 1973, Mosca incrementa il ritmo del riarmo e si espande in Asia e in Africa; dopo il secondo shock del ’79, un’Unione Sovietica ricca di valuta e sicura di sé invade l’Afghanistan; la caduta dei prezzi negli anni ’80 obbliga il Cremlino alla perestrojka gorbacioviana, nel tentativo di salvare uno Stato in bancarotta; il crollo dei prezzi di fine anni ’80 contribuisce alla fine dell’Urss; dopo la transizione eltsiniana, il rialzo dei corsi finanzia la restaurazione autoritaria di Putin e la sua politica estera aggressiva. Non è che oggi le cose siano molto cambiate. Come ha dichiarato al Sole 24 Ore l’ex premier russo Egor Gaidar, “l’80 per cento dell’export è greggio, gas e metalli. Come in epoca sovietica, come negli anni ‘90”. E la caduta dei prezzi incide pesantemente su un’economia legata al petrolio e al gas: il colosso energetico Gazprom ha perso in un anno il 74 per cento del valore, nello stesso periodo la Borsa ha ceduto il 67 per cento, i primi 32 oligarchi hanno perso 250 miliardi di euro secondo la rivista Forbes.

Lo scenario peggiore è quello di Paesi destabilizzati dalla caduta dei prezzi del petrolio, con rivoluzioni islamiche o nazionaliste. Questi nuovi regimi rivoluzionari nati dalla crisi sarebbero però in grado di consolidarsi al momento della ripresa internazionale, grazie al rialzo dei prezzi, reso più acuto dalla mancanza di alternative energetiche. In questo caso, oltre a poter distribuire nuova ricchezza ai loro cittadini per ottenere consenso, i nuovi governi, qualunque fosse la loro natura, non potrebbero essere ignorati né tantomeno contrastati da un Occidente sempre dipendente dal petrolio.

Autore: Pierluca Pucci Poppi

Il petrolio fu l’arma finale contro l’Urss

Wirepullers: l'Arabia Saudita ha pubblicamente annunciato un imminente abbassamento del prezzo del petrolio, motivando questa politica con l'intenzione di non infierire su un'economia globale già molto traballante. La spiegazione ufficiale però nasconderebbe il tentativo di colpire le casse iraniane, dando un taglio netto alle entrate di Teheran, la cui economia dipende dall'oro nero molto più di quella di Riyadh. I due paesi sono ai ferri corti già da qualche tempo e ne sanno qualcosa in Yemen, ma ora i sauditi, con la benedizione di Washington, hanno deciso di ispirarsi agli anni della guerra fredda, quando fu proprio l'abbassamento del costo del petrolio una delle armi determinanti per dare il colpo di grazia all'Unione Sovietica. Ahmadinejad si sarà guardato molto bene le immagini dei festeggiamenti per la caduta del muro di Berlino. (2)
Gli Stati Uniti, con l'Arabia Saudita, usarono il prezzo del greggio per mettere in crisi Mosca, al cui bilanci in crisi erano indispensabili le esportazioni dell'oro nero.

La caduta del muro di Berlino vent’anni fa è stato il segnale più dirompente della crisi sovietica in fase avanzata. Si temeva nella notte del 9 novembre l’arrivo devastante di divisioni corazzate sovietiche, come già successo nel 1953 nella stessa città e nel 1968 a Praga. Non successe, e il mondo cambiò per sempre.

Sulle ragioni della crisi sovietica si è scritto molto e la tesi più accreditata è quella dell’ “iperspesa” sovietica. Il sistema statale inefficiente, reso isterico dalla competizione militare reaganiana, giunse in pochi anni a una crisi che generò prima il disarmo, e poi la disgregazione.

Esiste però un altro aspetto meno noto della crisi, dovuto al calo delle entrate pubbliche, fortemente dipendenti dall’esportazione di gas e petrolio. La Cia ha calcolato che nel 1985 il 35% delle entrate in valuta pesante di Mosca dipendevano dagli idrocarburi. Queste enormi entrate erano generate per solo un terzo dell’esportazione, destinata ai Paesi occidentali, i restanti due terzi erano assegnati ai Paesi socialisti del Council of Mutual Economic Assistance.

Nel maggio del 1986, il prezzo del barile scese sotto i 10 dollari. Ciò generò un duplice effetto: da una parte le entrate in valuta pesante si abbassarono; dall’altra, i Paesi socialisti, legati a contratti di fornitura di lungo periodo, finirono per pagare il petrolio più della compagine occidentale, acuendo i problemi di stagnazione condivisi dalle maggiori economie di comando.

Mosca tentò di reagire: a partire dal 1986, i fondi destinati agli investimenti energetici aumentarono, raggiungendo in due anni il 24,3 % del totale degli investimenti sovietici. Ciò non bastò: le attrezzature sovietiche erano almeno vent’anni indietro rispetto a quelle americane. L’esplorazione portava sempre meno risultati.

Già nel 1983 la Cia rilevava che l’Urss stava iniziando a dirottare il petrolio dai consumatori allineati dell’Est Europa all’Occidente, pur di far cassa; e per alcuni mesi era riuscita a tenere in equilibrio il bilancio statale. Dagli inaffidabili bilanci statali iniziò a trasparire che Mosca stava però incorrendo in qualche problema: tra il 1985 e il 1987 i prestiti delle banche europee al Cremlino salirono da 11 a 26 miliardi di dollari. Il deficit nel 1989 esplose a 160 miliardi.

Il punto chiave della storia è che la crisi petrolifera sovietica è stata in parte indotta da una deliberata strategia americana. Nel 1977 la Cia rilevò che il settore petrolifero sovietico era sull’orlo della crisi (The Impending Soviet Oil Crisis, Er 77-10147); sarebbe stato salvato dalla risalita dei prezzi del 1979. Il neoliberale Regan aprì il settore petrolifero per motivi squisitamente domestici (favorire i consumi nazionali), ma con la consapevolezza che ciò avrebbe danneggiato le casse sovietiche.

Non è un caso che nel 1985 il direttore della Cia Bill Casey venne inviato in Arabia Saudita a parlare col suo omologo, il principe Turki. Il messaggio? Se volete mandar via i russi dall’Afghanistan, producete più petrolio. Gli arabi presero tempo. Poi si accorsero che, in realtà, già i consumi petroliferi erano in caduta (a causa dell’efficientamento economico post-1979); inoltre la produzione non-Opec era cresciuta di 10 milioni di barili al giorno tra il 1981 e il 1986, grazie anche alle aperture americane. L’Arabia Saudita produceva 2 milioni di barili di petrolio al giorno nell’agosto del 1985; in sei mesi passarono a cinque milioni di barili al giorno. I sauditi mantennero costanti i loro introiti aumentando le quantità, con il barile scivolato sotto i dieci dollari; ma riuscirono a ottenere l’obiettivo della ritirata sovietica. Mosca lasciò in realtà tutto il quadrante mediorientale. Non fu un caso.

Autore: Stefano Casertano

Is Saudi Arabia ready to play hardball with Iran?

Wirepullers: l'Arabia Saudita ha pubblicamente annunciato un imminente abbassamento del prezzo del petrolio, motivando questa politica con l'intenzione di non infierire su un'economia globale già molto traballante. La spiegazione ufficiale però nasconderebbe il tentativo di colpire le casse iraniane, dando un taglio netto alle entrate di Teheran, la cui economia dipende dall'oro nero più di quella di Riyadh. I due paesi sono ai ferri corti già da qualche tempo e ne sanno qualcosa in Yemen, ma ora i sauditi, con la benedizione di Washington, hanno deciso di ispirarsi agli anni della guerra fredda, quando fu proprio l'abbassamento del costo del petrolio una delle armi determinanti per dare il colpo di grazia all'Unione Sovietica. Ahmadinejad si sarà guardato molto bene le immagini dei festeggiamenti per la caduta del muro di Berlino. (1)

Are the Saudis prepared to constrain oil prices to weaken Iran? It's an intriguing possibility that, if implemented, could have major implications for U.S.-led efforts to curb the Islamic Republic's nuclear program.


In no small part because of a weakening dollar, oil prices have risen for most of the past year from a low of close to $30 per barrel to around $82 per barrel last week. But since then, prices have been slowly sliding back, dipping below $77 yesterday. Most media attributed Thursday's decline to a report that U.S. oil inventories had increased higher than expected, and that U.S. consumers continued to reduce energy use in a still sluggish economy. No doubt true. But other factors have been at play as well.


Specifically, the near-record stockpiles of oil that currently exist not only in the United States, but across the developed world, have been made possible by the fact that OPEC has been increasing output at the fastest pace in two years. Earlier this week, Bloomberg reported that the cartel has boosted production more than a million barrels a day since March -- despite the worst global recession since World War II. OPEC's largest producer, the Saudis, have helped lead the way, increasing exports four out of the past six months. Saudi output has increased almost 300,000 barrels per day since earlier this year. Overall OPEC production reached its highest level in 10 months in October.


The Saudis have said that $75 per barrel is an appropriate target price. This week, a Saudi government advisor told the press that, at over $80 per barrel, prices had reached "the high end of our range" and any further rise could prompt the Kingdom to further tap its unused capacity -- which currently stands at approximately 4 million barrels a day.


The Saudis have publicly explained their effort to moderate prices as a function of their desire to protect a fragile global economy. But it's hard not to notice that the Saudi strategy also has the side benefit of pinching Iran. Specifically, while the Saudis in 2009 require an average oil price of about $51 a barrel to cover their budget, Iran needs an average price in excess of $90. If the price holds steady at the Saudi-designated range of $70-$80 for the rest of this year, the Saudi treasury could come in with a slight surplus. The Iranians, by contrast, have reportedly been forced to consider phasing out food and energy subsidies in an attempt to battle their looming fiscal problems.


Of course, reducing subsidies on essential commodities is almost always political dynamite -- especially in a place like Iran, where the economy is already in a shambles, and where millions of Iranians have taken to the streets since the fraudulent June 12 elections to make known their hatred of the current regime. The fact is that the Islamic Republic is desperate for increased cash flow that could be used to buy off as many of its disaffected citizens as possible and cover up its gross economic mismanagement. Saudi determination to limit any price spike -- for whatever reason -- is clearly an impediment.


With daily exports in the range of 2.5 million barrels per day, Iran stands to lose about $900 million annually from every one dollar drop in the price of oil. With excess capacity of 4 million barrels per day, the Saudis are clearly in position to go much farther than they have to date in squeezing Iran if they so choose. An aggressive Saudi effort to depress oil prices well below the current $75 target could prove extremely harmful to Iran's already reeling economy and tumultuous political situation. Almost certainly, such an effort could inflict as much pain on the Iranian regime as many of the sanctions currently being discussed by the United States and its international partners -- and, given Russian and Chinese reluctance to get tough with Iran, would almost certainly be quicker and easier to implement.


Would the Saudis really be prepared to play hardball with Iran in this way? In the past, the answer has usually been no. Taking big risks to offend more powerful neighbors has generally not been the Saudi way. A transparent effort to inflict major damage on the Iranian economy would certainly incur the Islamic Republic's wrath. The Saudis no doubt recall that a similar charge about depressing oil prices led Saddam Hussein to invade Kuwait in 1990. Even if an Iranian military attack is not likely in the cards, the Saudis have good reason to fear the kind of mischief Iran could cause within the Kingdom -- especially among the large, potentially restive Shiite population that is concentrated in its oil-rich Eastern Province.


That said, there's no doubt that Saudi King Abdullah views Iran -- and the near-term prospect of its acquiring nuclear weapons -- as nothing short of an existential threat to the House of Saud and its preeminent position in the Islamic world. There's at least some chance that he may be prepared to consider doing things now that in the past would have been unthinkable in order to prevent his worst nightmare from coming to pass -- especially if he's provided sufficient support, encouragement and guarantees from the United States and our major European allies.


In this regard, the current crisis in Yemen, in which Saudi forces have been drawn into combat on their southern border against Iranian-backed Shiite rebels, has only upped the ante. As with almost everything Iran does, Abdullah no doubt perceives the Islamic Republic's involvement in Yemen as the latest maneuver in a grand strategy whose ultimate target is the Kingdom itself and control of the Islamic holy sites of Mecca and Medina.


The big question is how far the Saudis are willing to go in drawing on their oil power to really do something about it -- something, that is, that actually stands a chance of either 1) compelling the Iranian regime to fundamentally re-calculate its nuclear ambitions, or 2) speeding the regime's unraveling at the hands of its already seething population. Of course, encouraging the Saudis to use oil as a political weapon is not without its downside risks; after all, the United States was on the receiving end of just such a Saudi gambit during the oil embargo that followed the 1973 Arab-Israeli war. But given the enormity of the stakes now at play vis a vis Iran -- both for the Kingdom and for the United States -- it's clearly an option that at least deserves serious consideration. One hopes that it's already the subject of intense consultations between Washington and Riyadh, preferably at the highest levels. Should the United States conclude that the potential benefits outweigh the risks, it will need to muster every instrument at its disposal to steel the Saudi king to take unprecedented measures to face down Iran's unprecedented challenge.


Articolo del 13.11.2009


Autore: John Hannah

Fonte: www.foreignpolicy.com