
Wirepullers: Turchia e Armenia sarebbero sul punto di risolvere un conflitto in atto dal secolo scorso. Precisamente dal 1915-1916, biennio in cui un numero variabile tra i 950.000 e i 3.500.000 Armeni, a seconda che a dirlo sia Ankara o Yerevan, furono deportati e uccisi dall'esercito turco e da milizie curde. Il genocidio è ancora oggi una ferita aperta per Ankara, a tal punto che parlarne in pubblico può costare il carcere. Ad accelerare questo riavvicinamento tra i due paesi ha contribuito la guerra dell'anno scorso in Georgia, la quale avrebbe creato un blocco all'economia locale, costringendo gli attori dell'area a cercare nuove strade. Ed ecco quindi che viene istituita una commissione mista turco-armena, che dovrà stabilire se il genocidio ci sia veramente stato e in che misura. Come dire, se gli affari in qualche modo devono andare avanti, la storia non può essere un intralcio. Con la brutta sensazione che il gas che scalderà le nostre case tra qualche anno passerà sopra quei morti. (1)
A ovest riapre il confine con la Turchia, a est lancia segnali di distensione all'Azerbaigian. Lo storico accordo tra Ankara e Yerevan, le proteste dell'Azerbaigian e la questione del Nagorno-Karabakah.
Ci vorrà tempo, ma Mediterraneo e Caspio si riavvicineranno. La notizia di uno storico accordo tra Turchia e Armenia, che apre la strada alla normalizzazione e alla riapertura della frontiera tra i due paesi, aveva innervosito l'Azerbaigian, ultimo tassello della via che unisce i due mari. A Baku, infatti, non andava già che gli storici alleati turchi brindassero insieme ai nemici armeni senza affrontare la questione del Nagorno Karabakh. Nel 1993 l'Azerbaigian perse il controllo su questa regione, trasformatasi in enclave armena sotto il controllo dei soldati di Yerevan: fu allora che Ankara dimostrò la sua solidarietà ai fratelli turcofoni chiudendo le sue frontiere orientali.
E, a dispetto delle polemiche azere, i turchi dimostrano di voler ancora risolvere la questione: sul quotidiano di Istanbul Yeni Safaq, giusto all'indomani dello storico accordo tra i due vicini, sono apparse indiscrezioni sul possibile ritiro delle truppe armene dal Karabakh. Secondo il giornale, nei colloqui che hanno portato ai protocolli di riconciliazione con Ankara, Yerevan ha promesso
che i suoi soldati abbandoneranno l'enclave prima della riapertura del confine.

Un passo che sarebbe epocale per l'Armenia, dove l'opinione pubblica non è decisamente disposta ad abbandonare a sé stessa una regione che la guerra e la retorica nazionalista hanno trasformato nel simbolo stesso dell'orgoglio patriottico. Per questo motivo il presidente Sargsyan temporeggia, ribattendo alle indiscrezioni apparse su Yeni Safak con dichiarazioni ambigue: qualunque soluzione riguardante l'enclave sarà basata sul consenso e la libera volontà della popolazione armena che vive lì.
Per distogliere l'attenzione dell'elettorato, Sargsyan sposta il terreno dello scontro più a nord. Più precisamente in Samtskhe-Javakheti, la regione georgiana a maggioranza armena: ai "fratelli" d'oltreconfine il presidente promette di combattere per il riconoscimento dell'idioma comune come lingua regionale ufficiale. Un'altra spina nel fianco per il governo di Tbilisi, che deve controllare un territorio sempre più diviso dalle rivendicazioni identitarie.
Mentre il sud accoglie le lusinghe di Yerevan, le due regioni separatiste settentrionali, Abkhazia e Ossezia del Sud, consolidano il loro status di repubbliche indipendenti. Dopo quello di Russia e Nicaragua, infatti, stanno per incassare il terzo riconoscimento internazionale: quello del Venezuela, annunciato da Hugo Chavez al ritorno dal red carpet di Venezia.
Autore: Cecilia Tosi
Fonte: www.limesonline.it
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