
I prossimi compagni di governo chiedono politiche più drastiche. E a molti elettori non piace la sua elasticità da democristiana.
Merkel modello Thatcher. Fino a due giorni fa, dirlo era impensabile. Le due, si sa, non si sono mai amate e «Angie» s’era lasciata scappare una volta che non dimentica che Margaret fu tra i contrari alla Germania riunificata. Adesso, invece, dopo il voto di ieri, dovrà ripensarci.
Per tre ragioni. La Cancelliera è uscita confermata, il suo successo personale è servito a tamponare la flessione dell’alleanza Cdu-Csu, la Grande coalizione è finita travolgendo la Spd, ma le incognite del nuovo governo da formare sono tante. E il trionfatore di questa tornata, il leader liberale Guido Wester-welle, dopo undici anni all’opposizione, si prepara a sedersi al tavolo delle trattative con idee molto precise.
Le stesse che lo hanno portato alla vittoria. Delle tre partite aperte nella mezz’ora in cui i risultati hanno cambiato il volto politico della Germania, quella della Cancelliera si presenta indubbiamente come la più complicata. Angela Merkel aveva impostato la campagna elettorale nel suo stile, sfuggendo democristianamente alle domande più insidiose, tiepida verso l’obiettivo dichiarato di una nuova coalizione con i liberali, e in realtà aperta a ogni ipotesi, senza escludere neppure di continuare con la Spd o accordarsi con i Verdi, premiati anche loro dalla scossa elettorale.
Ma a sorpresa, il pragmatismo, l’arte del rinvio, la ricerca continua di un minimo comune denominatore, e insomma quelle che si erano rivelate le doti personali più apprezzate della Cancelliera, non hanno più trovato il gradimento sperato. Non è piaciuta l’immagine della Merkel che andava d’accordo con il suo vice Steinmeier al punto da sembrare, anche lei, socialdemocratica. L’appoggio avuto dagli alleati sull’aumento delle tasse e sulle politiche di risanamento economico, una scelta obbligata, pagata in massima parte dalla Spd, ha dato inaspettatamente a una parte degli elettori democristiani più tradizionali la sensazione di un cedimento. A mediazioni eccessive e a politiche sociali troppo spinte e lontane dalla tradizione Cdu-Csu (come ad esempio i congedi per maternità concessi anche agli uomini). A una mancanza del tradizionale rigore tedesco nell’amministrazione, che ha finito col pesare sui conti dello Stato. E a una smodata logica dell’emergenza. Sul caso Opel, per fare un esempio, non solo il ministro dell’Economia zu Guttemberg, ma gran parte degli elettori, avevano delle riserve. Piuttosto che aiuti di Stato, avrebbero preferito maggior rispetto delle regole di mercato. Anche a costo dell’insolvenza e della possibile liquidazione dell’azienda.
E’ tutto ciò che rende problematica l’annunciata, e ormai prossima, collaborazione tra Merkel e liberali nel futuro governo nero-giallo. Westerwelle - che ieri ai festeggiamenti è arrivato non a caso con il suo maestro Hans Dietrich Genscher, ministro liberale degli Esteri con Helmut Kohl - ha vinto le elezioni, oltre che per abilità personale e capacità di comunicazione, sfoggiate in tutta la campagna, su un classico programma liberista. Meno tasse, alzare la soglia di reddito per l’esenzione totale dal fisco a ottomila euro. Stipendi al lordo, il più possibile vicini al netto. Più merito e meno salario minimo (una bandiera che la Spd si vantava di aver piantato sulla schiena della Cancelliera). Drastica riduzione dei sussidi di disoccupazione (se paghiamo la gente per stare a casa, è stato uno dei cavalli di battaglia di Guido, come possiamo chiedere a chi va a lavorare di impegnarsi di più?). E poi, ancora: scuole più dure, più formative, più legate a criteri di selezione, con un aumento degli investimenti statali per istruzione e ricerca fino al 10% del pil (oggi sono al tre). Insomma, un programma molto tagliato e molto connotato, sulla base del quale Westerwelle ha offerto a Merkel un’alleanza di governo esclusiva e una maggioranza delimitata, chiusa cioè ad altre possibili intese, come appunto con i Verdi. Se Angela, per usare un’antica metafora di Fanfani, pensava di diluire il vino di Guido, troppo forte, con l’acqua fresca degli ecologisti, quest’opzione è esclusa in partenza. E d’altra parte non si vede come potrebbero democristiani e liberali, che hanno in comune la posizione a favore del mantenimento delle centrali nucleari almeno fino a che la ricerca sulle energie alternative darà risultati concreti (cioè, per un lasso di tempo indefinito), accordarsi con i Verdi, che già al tempo della loro alleanza con Schroeder sottoscrissero con la Spd un accordo per la progressiva chiusura delle diciassette centrali tedesche ancora attive entro il
2021.

L’identità del nuovo governo è dunque ancora tutta da definire. E’ chiaro solo che dovrà essere molto diversa da quella della Grande Coalizione appena bocciata. Anche se una svolta liberista potrebbe rendere per la Merkel più complicata del previsto la gestione di un autunno che s’annuncia assai caldo, per l’esaurirsi degli effetti dei provvedimenti anticrisi (a cominciare dalla settimana cortissima, grazie alla quale sono stati evitati migliaia di licenziamenti) e per le probabili reazioni delle aziende a una mancata, benché annunciata, ripresa economica. In questo quadro si giocherà anche il nuovo ruolo della sinistra tedesca, che torna tutta insieme all’opposizione, e ci torna con rapporti di forza assai mutati al suo interno.
Socialdemocratici e sinistra radicale, insieme, fanno oggi molto meno dei voti che al momento della sua vittoria nel 1998 faceva da sola la Spd guidata da Schroeder. Dietro la calma ostentata ieri nelle dichiarazioni ufficiali, che parlavano di amara sconfitta, Steinmeier e Muentefering sanno di aver portato a casa il peggior risultato della storia del loro partito, mentre Lafontaine e Gysi festeggiano quello migliore della Linke. Quasi due milioni di elettori socialdemocratici si sono astenuti. Più di un altro milione si sono spostati sulla Linke. Un’alleanza tra le due sinistre, che fin qui l’avevano esclusa, sarebbe stata comprensibile, e in qualche modo auspicabile, con una Spd battuta, sì, ma ancora forte, e una Linke contenuta nel dieci per cento, più o meno la percentuale che tocca a tutte le opposizioni radicali in Europa.
Con questi numeri sarebbe stato realistico il progetto di un’evoluzione di tutta la sinistra nel suo complesso, guidata dalla parte riformista, e accompagnata da una trasformazione di quella estrema, nel quadro di una collaborazione che già esiste, tra i due tronconi, in molte amministrazioni locali, a cominciare da quella di Berlino. Ma al contrario, ora diventano concreti, da una parte, il rischio di un inseguimento gridaiolo, sull’onda dell’inasprimento della situazione sociale e delle proteste che hanno fatto crescere la Linke, e dall’altra gli effetti imprevedibili della «Ostalgie», il sentimento irrazionale di rimpianto che s’affaccia, e ha fatto sentire il suo peso, nelle urne, nel territorio e nelle pieghe della ex-Germania comunista.
Tutto è più chiaro, così, tutto è più scandito, dopo quattro anni in cui, all’interno della Grande Coalizione, le cose tendevano troppo a mescolarsi. Ma detto questo, non è affatto sicuro che la Germania, da ieri, sia diventata più stabile.
Autore: Marcello Sorgi
Fonte: www.lastampa.it
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