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mercoledì 19 agosto 2009

Il Brasile, un gigante incatenato

Wirepullers: Luiz Inácio da Silva detto Lula, presidente del Brasile, guida una delle quattro potenze economiche che, secondo la banca Goldman Sachs, domineranno l'economia mondiale nei prossimi decenni. Si tratta del cosiddetto BRIC: Brasile, Russia, India e Cina. La previsione fatta dalla banca, in una propria relazione, diceva che entro il 2050 il PIL di questi quattro paesi avrebbe raggiunto un volume pari a quello del G6 (Stati Uniti d'America, Giappone, Regno Unito, Germania, Francia e Italia). A rendere ancora più suggestiva questa previsione ha contribuito il soprannome di Lula, il "presidente operaio", dovuto al suo passato di operaio metalmeccanico. Sembrava l'alba di una nuova epoca per il continente sudamericano, pronto a liberarsi dal giogo americano per non essere più solo "il giardino dietro casa". Poi, forse, l'etanolo ha rovinato tutto. (1)

In Ecuador, Rafael Correa, grazie ad una politica che rafforza il ruolo dello stato e che lui stesso definisce «sociale e solidale», è stato rieletto al primo turno delle elezioni presidenziali del 26 aprile. Il 3 maggio, a Panama, dopo i deludenti risultati in materia di riduzione della povertà ottenuti dal socialdemocratico Martín Torrijos, la candidata del Partito rivoluzionario democratico (Prd), Balbina Herrera, è stata battuta da Ricardo Martinelli, un uomo d'affari dal profilo berlusconiano. Prendendo le distanze dalla sinistra «radicale» del continente, la Herrera si richiamava al brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva e alla cilena Michelle Bachelet. Sono risultati significativi in vista delle elezioni presidenziali del 2010 che si terranno in Cile e in Brasile. In quest'ultimo paese, al di là di alcune apprezzabili riforme sociali, il fatto che il presidente Lula non abbia rimesso in discussione l'eredità economica dei suoi predecessori - anche se la definisce un'«eredità maledetta» - potrebbe creare non poche difficoltà alla sinistra.

L'economia americana inizia la sua discesa agli inferi.In Brasile? Va tutto bene, grazie. Il presidente Luiz Inácio Lula da Silva ritiene che il suo paese «viva un momento magico (1)». Dopo un aumento del 5,67% del prodotto interno lordo (Pil) nel 2007, il morale del governo è sul bello stabile. Poco importa quel che accade altrove: la crescita continuerà «al ritmo attuale per i prossimi quindici-vent'anni (2)».
Ottobre 2008. Il sistema finanziario internazionale crolla. In Brasile?Nessuna preoccupazione. «Laggiù [negli Stati uniti], la crisi è un vero e proprio tsunami. Qui, se arriva, non sarà che una piccola onda, troppo piccola anche per fare surf», rassicura, in un discorso del 4 ottobre, un presidente dall'umore vacanziero. «Il disaccoppiamento è avvenuto (3)», rincara, alcuni mesi più tardi, Luciano Coutinho, direttore della Banca nazionale di sviluppo economico e sociale (Bndes), confermando una teoria secondo la quale la crescita dei paesi della «periferia» del sistema capitalistico mondiale sarebbe ormai indipendente dalle turbolenze del «centro».
Marzo 2009. L'«ondina» è arrivata. E con lei la tempesta... Le previsioni di crescita del Pil per il 2009 della banca Bradesco scendono: da più del 4% nel giugno 2008, passano al 2,5% in dicembre, prima di precipitare a -0,3% nell'aprile 2009. L'agenzia di rating Morgan Stanley anticipa anche un crollo dell'1,5% dell'economia brasiliana, il che equivarrebbe al suo maggior rallentamento dal 1948 (4).
Nell'ultimo trimestre 2008 la produzione industriale diminuisce del 19%. Licenziamento di ottocentomila salariati tra ottobre e gennaio (quasi l'1% della popolazione attiva), senza contare le perdite nel settore informale che rappresenta circa il 40% degli attivi del paese.
Mezzo milione di brasiliani ripiomba nella povertà (quando non nell'estrema povertà). Alla fine il presidente Lula si decide a sostituire tavola da surf e occhiali da sole con rosario e messale. Il «momento magico» si è trasformato in un incubo da cui si uscirà, dichiara il 6 aprile, solo «pregando Dio che la crisi sparisca da Europa, Stati uniti e Giappone». Più sobrio, The Financial Times dell'11 marzo conclude che i risultati economici del Brasile segnano «la fine del dibattito sulla sua eventuale immunità rispetto al contagio globale». Il mito del disaccoppiamento ha fatto il suo tempo.
Va detto che negli ultimi quindici anni si era inventato di tutto per aumentare la dipendenza esterna del paese. Tutto, e in particolare la finanziarizzazione accelerata di un'economia che tra le sue caratteristiche - e non delle meno singolari - aveva quella di essere stata pensata da un sociologo, Fernando Henrique Cardoso, i cui lavori volevano «aprire la strada al socialismo (5)», e dall'ex sindacalista Lula.
Alla fine degli anni '60, Cardoso - passato per la Scuola di alti studi in scienze sociali (Ehess) di Parigi - rifiuta l'idea che un paese della periferia possa svilupparsi grazie ad un'alleanza con il capitale estero, senza per questo aumentare la propria dipendenza: «il sistema di dominazione riappare come una forza «interna», attraverso le pratiche sociali di gruppi e classi locali che cercano di promuovere interessi stranieri (6)».
Vent'anni più tardi, diventato ministro delle finanze (1993-1994) poi presidente (dal 1995 al 2002), Cardoso scopre che «il mondo è cambiato». E anche la sua analisi: «È successo qualcosa che Marx non aveva neppure immaginato (...): con grande rapidità il capitale si è internazionalizzato e oggi è diventato abbondante. Alcuni paesi possono trarre profitto da questa situazione. E il Brasile è uno di questi (7)». Influenzato da quello che considera il «successo» delle strategie neoliberiste di stabilizzazione realizzate in Messico e in Argentina, decide di mettere l'apertura ai capitali stranieri al centro della sua strategia: non si tratta più di promuovere uno «sviluppo autonomo» «sostituendo» le produzioni alle importazioni, ma, al contrario, di facilitare queste ultime affinché rinvigoriscano la competizione e spronino la produttività. Cardoso si impegna dunque ad adattare il Brasile al gusto degli investitori. Le barriere tariffarie vengono sfrondate, i controlli di cambio alleggeriti, la Costituzione rivista per rendere possibile un ambizioso programma di privatizzazioni (per un totale di circa 90 miliardi di dollari in due mandati).
Tra il primo e il secondo semestre 1994, le importazioni fanno un balzo del 52,7%. Il risultato è che un gran numero di imprese brasiliane sono costrette a chiudere o ad allearsi con società straniere...le quali prenderanno parte al 70% delle milleduecentotrentatrè operazioni di fusione-acquisizione realizzate dal 1995 al 1999. Un po' sconcertata dall'audacia di un tale processo di denazionalizzazione, la rivista Veja - peraltro di una granitica militanza liberista - osserva: «La storia del capitalismo ha visto raramente un trasferimento di controllo così intenso, in un lasso di tempo così breve (8)».
Nel 2000, Rubens Ricupero, segretario generale della severa Conferenza delle Nazioni unite per il commercio e lo sviluppo (Unctad), fa il bilancio della politica di apertura al capitale estero. La sua conclusione è una litote: «gli obiettivi commerciali delle multinazionali e gli obiettivi delle economie ospiti non sono necessariamente coincidenti (9)». Non necessariamente, in effetti.
Sotto Cardoso, il paese si deindustrializza, il tasso di disoccupazione ufficiale quasi raddoppia fino a raggiungere il 9%, mentre la crescita del Pil pro capite non supera l'1%. L'apertura (in grande) delle frontiere e la liberalizzazione del controllo dei cambi hanno un costo. E la fattura non si fa attendere: la bilancia commerciale (10) crolla dai 10,5 miliardi di dollari nel 1994 per arrivare a -3,5 miliardi esattamente un anno dopo. Si era mantenuta positiva dal 1980. Resterà negativa fino al 2000.Il paese diventa quindi dipendente, perché, come spiega Cardoso stesso, «per colmare i deficit, avevamo bisogno di un afflusso costante di capitale estero (11)». Verranno quindi raddoppiati gli sforzi per attirarlo, nonostante il suo assai discutibile impatto sull'economia.
Ma non per questo i deficit risultano sotto controllo. Infatti, in Brasile come altrove, obiettivo degli investitori non è l'altruismo.Al contrario, puntano a profitti - consistenti, di preferenza - che a loro volta possano produrre afflusso di valuta. E, se gli investimenti esteri non colmano le fughe di capitali, bisogna ricorrere al debito esterno, che passa da 150 a 250 miliardi di dollari dal 1994 al 2002.
Un po' come il finanziere americano Bernard Madoff, di cui si è recentemente scoperto che aveva fatto fortuna rivisitando la buona vecchia formula della frode piramidale (12), il Brasile avvia uno «schema di Ponzi» secondo il quale i debiti di oggi pagano quelli di ieri... e preparano quelli di domani. Con la differenza che lui, Madoff, ha truffato solo i ricchi. Il governo brasiliano non ha la stessa classe: la fattura sarà pagata dalla popolazione, in particolare attraverso tassi d'interesse stratosferici e la politica di austerità di bilancio che questi impongono.
È logico: quando si organizza l'economia attorno agli interessi degli speculatori, se ne favoriscono i comportamenti. Le grandi ricchezze private - molte in Brasile - capiscono subito che con i tassi praticati i titoli del debito interno diventano attraenti. Le imprese non sono da meno, e abbandonano poco a poco l'investimento produttivo. Grazie a tanto buon senso, lo sviluppo «alla Cardoso» diventa soprattutto sinonimo di sviluppo... della finanza. Sotto la sua presidenza il debito interno aumenta del 900%, mentre l'investimento ristagna e diventa sempre più dipendente dall'estero, soprattutto in campo tecnologico.
Cardoso non è stato il primo a voler «modernizzare» il Brasile. Ma è stato il più efficace. Fin dal 1998, il settimanale The Economist si dichiarava più che soddisfatto: «in poco meno di quattro anni, ha praticamente fatto tutto quello che alla britannica Margaret Thatcher - che non usava mezze misure - è riuscito in dodici». Il principale oppositore del paese, Lula da Silva, è meno entusiasta. Per lui, Cardoso è addirittura «il carnefice dell'economia brasiliana».
Come era prevedibile, l'elezione dell'ex sindacalista «rosso» alla presidenza, nel 2002, desta molte preoccupazioni. «Gli investitori esteri si erano sempre chiesti come si sarebbe comportato il Brasile sotto un presidente con un tale profilo di sinistra», ricorda Emílio Odebrecht, erede dell'impero industriale di cui porta il nome. Durante la campagna per le presidenziali del 1998, da cui uscì sconfitto, Lula da Silva aveva infatti garantito: «Tra pagare interessi e riempire lo stomaco del popolo, sto dalla parte del popolo (13).» A conti fatti, dichiara l'oligarca, la sua elezione «è stata la cosa migliore che potesse capitare al nostro paese (14)». Con grande sorpresa di alcuni militanti del suo partito, il presidente Lula è diventato ben presto il beniamino degli investitori e dei mercati finanziari.
È vero che quest'ultimi hanno fatto di tutto per incoraggiarlo...
All'epoca, l'economia brasiliana dipendeva da un nuovo prestito del Fondo monetario internazionale (Fmi). E, spiega The Wall Street Journal del 14 agosto 2002: «il prestito del Fmi è strutturato in modo tale che i candidati di sinistra favoriti dai sondaggi, Luiz Inácio Lula da Silva e Ciro Gomes, dovranno portare avanti le politiche economiche conservatrici del presidente uscente».
«Sono dalla parte del popolo» Il presidente Lula è già convinto che «non è possibile governare senza il sostegno degli oligarchi (15)»? Forse. Il fatto è che accetta abbastanza facilmente di governare per loro. Economista presso l'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse), Javier Santiso è raggiante: «il trasferimento di potere tra Cardoso e Lula è stato, in quanto tale, una lezione di eleganza politica (16)». Quanti tra gli elettori speravano in una rottura, apprezzano meno.
Certo, nei suoi interventi il capo dello stato continua a difendere l'idea della sovranità economica. Che importa, allora, se è «grazie» alla sua dipendenza che il paese approfitta appieno della congiuntura economica internazionale favorevole. I capitali affluiscono? Questo vuol dire che «il Brasile è diventato padrone di se stesso (17)»! Ma non si cambia un modello, limitandosi ad approfittarne. Certo, le esportazioni brasiliane aumentano ad un ritmo medio del 20% l'anno dal 2003 al 2006, risolvendo, al momento, i problemi di bilancia commerciale del paese. Ma le esportazioni sono sostenute da una nuova ondata d'investimenti diretti esteri (Ide), che passano da 10 miliardi di dollari nel 2003 (circa il 2% del Pil) al livello storico di 45 miliardi di dollari nel 2008, di modo che lo sviluppo delle esportazioni brasiliane comporta il rafforzamento della penetrazione del capitale estero (18).
Bisogna «governare per tutti», non solo «per i poveri», consigliava, lo scorso 16 gennaio, il presidente brasiliano al suo omologo boliviano Evo Morales. Una raccomandazione che lui stesso mette in pratica con grande zelo. Infatti, se la ventata di prosperità di cui ha beneficiato il paese ha portato sollievo alle classi popolari - grazie a programmi sociali reali, anche se basati soprattutto sull'assistenzialismo - , la stessa si è trasformata in un diluvio di ricchezza per gli speculatori.
Nel 2007, ad esempio, le entrate di valute legate al boom delle esportazioni gonfiano il valore del real di circa il 20% rispetto al dollaro, mentre i titoli del debito interno godono di un tasso d'interesse annuo del 13%. Gli investitori esteri (o i brasiliani che hanno preso prestiti in dollari all'estero a tassi relativamente bassi) beneficiano perciò, a fine anno, di un ritorno sull'investimento di oltre il 30%. Stando così le cose, non sorprende che il debito interno tocchi i 1.600 miliardi di real nel gennaio 2009, vale a dire più di 680 miliardi di dollari e cioè tre volte le riserve di valuta del paese che il presidente Lula ostenta oggi per vantare... l'indipendenza economica del Brasile.In questo campo, il solo vero successo alla fine sarà stato il rafforzamento del peso relativo delle ventimila famiglie brasiliane che detengono l'80% dei titoli del debito, la cui remunerazione corrisponde al 30% del bilancio federale.
Un bilancio di cui meno del 5% va alla sanità e il 2,5% all'istruzione.Nell'accettare il modello dato, il presidente Lula ne accettava anche la vulnerabilità. Quella che riconosce lo stesso Cardoso, prima di concludere, con sobrietà: «Se i miliardi di dollari [possono] entrare in Brasile, ne [possono] anche uscire (19)». Infatti, in periodo di crisi, la «periferia» passa da una situazione di dipendenza rispetto alle esigenze di profitto del «centro», a un asservimento totale di fronte ai suoi bisogni di liquidità. In effetti, se le entrate di valute non mantengono «necessariamente» le loro promesse in termini di sviluppo, è certo invece che le uscite massicce rendono fragile l'economia del paese. È un po' il paradosso della dipendenza: si perde quando i dollari entrano, si perde ancora di più quando escono...In pochi mesi, il crollo del sistema finanziario internazionale ha trasformato la bilancia dei pagamenti brasiliana in un vero colabrodo di valute. A cominciare dalla bilancia commerciale. In calo dal 2006 - dato che, grazie alla valorizzazione del real, le importazioni crescevano più velocemente delle esportazioni - , essa mostra, nel gennaio 2009, il suo primo deficit da novantatre mesi, e senza alcun segno di ripresa in vista, in quanto il Fmi prevede un crollo dell'11% del commercio mondiale nel 2009. In queste condizioni, diventa più difficile per il Brasile importare le attrezzature da cui dipende la sua produzione.
Le uscite verso l'estero di profitti e dividendi ammontano a quasi 34 miliardi di dollari nel 2008 - circa il 3% del Pil - , un aumento del 50% rispetto al 2007 e del... 500% rispetto al 2003.
La bilancia dei conti correnti mostra così, nel 2008, il suo deficit più alto da dieci anni (28,3 miliardi di dollari, cioè il 2,5% del Pil).Brasilia dichiara di disporre riserve internazionali per un ammontare di circa 200 miliardi di dollari per rassicurare gli investitori riguardo ad un eventuale rischio di crisi della bilancia dei pagamenti (20). Per ora, il Brasile ritiene di godere di un margine di manovra sufficiente - con un tasso direttore di circa l'11% nel marzo 2009.
Tuttavia, secondo l'economista Paulo Henrique Costa Mattos, il passivo a breve termine sarebbe di 600 miliardi di dollari (21). Mentre la maggior parte dei paesi del mondo cerca di indebitarsi massicciamente, la competizione imperversa sul mercato del prestito di stato: i tassi finiranno per risalire ed il peso dei debiti contratti fino ad allora peserà, a sua volta, sulla bilancia dei pagamenti e quindi sulle spalle dei brasiliani. Il fenomeno della «dipendenza» non è nuovo.
Già nel 1969, il ministro cileno degli affari esteri Gabriel Valdés così si rivolgeva al presidente americano Richard Nixon: «Per l'America latina, l'investimento privato ha sempre significato, e significa ancora, che le somme che escono dai nostri paesi sono di molto superiori a quelle che vi sono investite.(...) In una parola, sappiamo che l'America latina dà più di quanto riceve (22)». In passato, alcuni governi, non necessariamente di sinistra, hanno difeso programmi di sviluppo più autonomi, basati su una sostituzione delle importazioni. Progetti che sono stati criticati da chi riteneva che, guidati da «borghesie nazionali», fossero votati al fallimento.Per loro, non c'era che una sola possibilità: quella della rivoluzione sociale. Il sociologo Cardoso era fra questi. Il sindacalista Lula da Silva anche.
Se quest'ultimo avesse realmente voluto, una volta al potere, lavorare al «disaccoppiamento» dell'economia brasiliana, forse avrebbe dovuto scegliere un'opzione diversa da quella di abbracciare il programma economico del suo predecessore.
Avendoci rinunciato ha finito per rappresentare quella mutazione di una parte della sinistra latinoamericana, che l'economista dell'Ocse, Santino, - entusiasta - descrive in questi termini: «Espressioni come "lotta di classe", "pianificazione economica" e "strategie di sostituzione delle importazioni" sono state sostituite da altre, quali "consenso democratico", "consolidamento istituzionale", "deregolamentazione economica" e "apertura al libero scambio"».
È dunque con questi strumenti che Lula da Silva affronta le difficoltà economiche del Brasile. Chiede agli Stati Uniti di aumentare il commercio, ai brasiliani di stingere la cinghia. A Dio, lo si è visto, una «ripresa» delle economie del «centro». E agli investitori esteri e ai detentori di titoli del debito? Niente, o molto poco.
Recentemente interrogato sulla questione delle responsabilità rispetto alla crisi attuale, il presidente brasiliano ha risposto: «Non abbiamo creato noi il problema, ma facciamo parte della soluzione (23)».Davvero?


(1) «Brasil: Lula celebra el "investment grade" de Brasil», Infolatam, Brasília, 1° maggio 2008. (2) «The delights of dullness», The Economist, Londra, 17 aprile 2008.
(3) Jonathan Wheatley, «New economic figures rattle Brazilians», The Financial Times, Londra, 7 febbraio 2009.
(4) Andre Soliani e Fabiola Moura, «Latin America may contract 4%, Morgan Stanley says», Bloomberg.com, 16 marzo 2009.
(5) Fernando Henrique Cardoso e Enzo Faletto, Dependencia y desarrollo en America latina, Siglo XXI, Messico, 1969.
(6) Ibid.
(7) Intervista a Vinicius Torres Freire, Mais!, São Paulo, 13 ottobre 1996.
(8) Cfr. Geisa Maria Rocha, «Neo-dependency in Brazil», New Left Review, n. 16, Londra, luglio-agosto 2002. Salvo indicazione contraria, le cifre riguardanti il periodo «Cardoso» sono tratte dal suo studio, al quale sono debitore di questa analisi.
(9) Citato da Geisa Maria Rocha, ibid.
(10) La somma delle esportazioni meno quella delle importazioni (in valore).
(11) Fernando Henrique Cardoso (con Brian Winter), The Accidental President of Brazil, PublicAffairs, New York, 2006.
(12) Accusato di una gigantesca truffa che ammonta a 50 miliardi di dollari, è attualmente in carcere.
(13) Christian Dutilleux, Lula, Flammarion, Parigi, 2005.
(14) Folha de São Paulo, 27 gennaio 2008.
(15) «Lula ataca oligarquias, mas poupa Sarney», O Estado de São Paulo, 6 febbraio 2009.
(16) Javier Santiso, The Latin America's Political Economy of the Possible, The Mit Press, Cambridge (Massachusetts), 2006.
(17) Annuncio fatto in occasione di un rimborso anticipato all'Fmi, il 13 dicembre 2005.
(18) Salvo menzione contraria, le cifre provengono dall'Istituto di Pesquisa Econômica Aplicada (Ipea), São Paulo.
(19) Cardoso e Winter, op. cit.
(20) Nell'ultimo trimestre 2008 è risultata negativa per la prima volta dalla fine del 2005, ma con un deficit sette volte più alto, pari a 21 miliardi di dollari, cioè l'1,85 % del Pil annuale.
(21) «A crisi econômica e suas consequências para os trabalhadores», Socialismo e liberdade, São Paulo, 16 aprile 2009.
(22) Citato da André Gunder Frank, Lumpen-Bourgeoisie and Lumpen-Development, Monthly Review Press, New York, 1972.
(23) «Latinoamerica elogiada por reacción a crisis global», Latinforme, Buenos Aires, 16 aprile 2009.( Traduzione di G. P.)

Autore: Renaud Lambert

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