
Perfetta organizzazione, ospitalità, regali. Ma il G8 non ha aumentato il peso politico del premier e del nostro paese. Mentre lo stesso summit deve reinventarsi.
Siccome non vogliamo un governo mondiale, e siccome anche se lo volessimo è impossibile, organizziamone una parodia. Questa era la parola d’ordine inespressa degli otto “grandi” a L’Aquila, questo sarà il retropensiero del G20 di settembre a Pittsburgh e degli eventuali G14 o Gqualcosa che seguiranno. La parodia è il genere artistico cui ricorrono i leader politici quando sentono di dover affrontare un tema che non vogliono o non possono schivare, ma su cui non hanno una soluzione a portata di mano. Nel caso specifico, si tratta di dar l’impressione di offrire una cosiddetta risposta globale alla cosiddetta crisi globale. L’esercizio ha un suo senso, anche se non ha molto a che vedere con ciò che viene dichiarato. Vediamo.
Logica vorrebbe che quando i problemi sono drammatici e vasti, meno sono i decisori chiamati ad affrontarli più efficace è la risposta. In parole povere, se la crisi tocca tutti e duecento gli Stati e staterelli del globo, dagli atolli del Pacifico alla superpotenza leader, non si può chiedere ai duecento di risolverlo. Nessuno pensa di rivolgersi all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite per statuire alcunché di serio. Però riesce difficile ammettere pubblicamente che pochi possono prendere decisioni o addirittura stabilire norme cogenti per tutti, almeno in teoria. Non fosse che per ragioni di geopoliticamente corretto.
L’alternativa è tra farlo senza dirlo e dirlo senza farlo. Di norma, prevale il secondo istinto. L’Aquila non fa eccezione. Forse a Pittsburgh uscirà qualcosa di più concreto. E probabilmente inventeremo nuovi formati per evitare, specie in tempi di crisi, di spendere tanti soldi in eventi glamour, sicuramente utili alla conoscenza reciproca fra i leader, ma poco o punto incisivi nelle nostre vite.
In quest’ultima ipotesi – a parte le coreografie di rito, dal G8 in su, cui nessuno vuole in fondo rinunciare - il nocciolo delle questioni sarà affrontato nella più ristretta sede possibile: il G2. Così funzionava ai tempi della guerra fredda, fra Stati Uniti e Unione Sovietica. Così funzionerà – se funzionerà, e non è affatto scontato – nel prossimo futuro. Solo che stavolta di fronte agli Stati Uniti siederà la Cina.
Per affrontare i nodi della crisi economica occorre infatti l’intesa fra la prima economia mondiale e quella – attualmente quarta - che quasi tutti considerano destinata a strapparle il primato, a un certo punto di questo secolo. Il rapporto fra il massimo debitore mondiale (Usa) e il suo massimo creditore (Cina) è stato paragonato alla “mutua distruzione assicurata” che legava Stati Uniti e Unione Sovietica.
Entrambe le potenze potevano e possono annientarsi l’un l’altra, con le bombe atomiche (Urss-
Usa) o con la leva economico-finanziaria (Cina-Usa), ma nessuna ha ovviamente interesse a farlo.

E tuttavia sappiamo che non tutti i processi politici poggiano su una base razionale. Un generale pazzo poteva distruggere il Nemico e la Terra intera fra gli anni Cinquanta e gli anni Ottanta (potrebbe farlo anche oggi). L’impazzimento della finanza globale può mettere bruscamente fine all’impero del dollaro, sempre più claudicante, senza che sia pronta un’alternativa. Le conseguenze sarebbero meno devastanti di un’apocalisse nucleare, ma non troppo. Quanto alle probabilità, non è scontato che i dottor Stranamore siano più frequenti fra i militari piuttosto che fra i finanzieri o i politici.
L’importanza del G8 dell’Aquila consisteva dunque nell’incontro Obama-Hu Jintao, che avrebbe dovuto aver luogo durante il vertice. Come in ogni congresso, infatti, non contano tanto le sedute plenarie quanto gli incontri laterali, di corridoio, informali. Per quanto riguarda l’Italia, come paese ospitante avremmo dovuto fare di tutto perché questo dialogo avvenisse nell’ambiente migliore. Fedeli alla nostra fama di ospiti calorosi e informali. Se con Obama abbiamo dato il meglio, non così con Hu Jintao.
Non sembra che il governo italiano sia del tutto consapevole di che cosa sia oggi la Cina. Certo è che i cinesi, sbarcati in massa in Italia – trecento imprenditori seguivano i leader politici per tentare affari da noi (comprare qualche asset) – non hanno troppo apprezzato il modo in cui li abbiamo accolti. A cominciare dal fatto che ad accogliere il numero 1 di Pechino fosse il ministro Alfano, per continuare con alcuni piccoli sgarbi. O perlomeno con gesti che da Hu Jintao sono stati considerati tali. E siccome per i cinesi le forme sono sostanza, ne hanno preso buona nota. Se per la prima volta nella storia un leader cinese ha lasciato un vertice internazionale non è stato solo per colpa degli uiguri.
Finché tutti quanti non capiremo che riunire un vertice dei grandi paesi industriali senza la Cina come partecipante a pieno titolo è privo di senso, potremo aggiungere qualsiasi numero alla G ma le parodie resteranno totalmente prive di effetto.
Questo ci introduce a riflettere su noi stessi e sul nostro ruolo nel G8 e nel mondo. Al netto delle polemiche politiche che continuano ad avvelenare il clima domestico, il bilancio non è brillante. Per ammissione dello stesso Berlusconi, la riunione degli otto grandi è inadeguata persino a svolgere le funzioni informali cui è abitualmente deputata.
La semplicità seminariale dei primi vertici, che rendeva più facile anche la conoscenza reciproca, è ormai sommersa dalle frenesie mediatiche e dai programmi di contorno, più ricchi dello stesso summit.
Ma a parte questo, una riflessione si impone. A noi italiani ma anche agli altri europei. E’ per noi accettabile che gli affari mondiali, e quindi anche nostri, vengano gestiti in futuro solo dalla coppia Pechino-Washington? E se no, quale ruolo attivo possiamo svolgere?
In politica non c’è nulla di peggio di voler apparire ciò che non si è. Non per questo occorre apparire meno di quanto si potrebbe essere. Purtroppo, questa seconda tendenza pare oggi preminente in Italia.
Quasi una mancanza di rispetto verso noi stessi, a partire dall’assunzione acritica degli stereotipi altrui sul Bel Paese, che facciamo di tutto per alimentare. Per esempio con l’attenzione spasmodica per la stampa estera, da cui attendiamo condanne e promozioni come dalla Bocca della Verità.

Dev’esserci chiaro che Berlusconi è diventato un problema per l’immagine dell’Italia nel mondo. Forse qualcosa di più, se consideriamo lo straordinario elogio di Obama a Napolitano, fuori protocollo e contro ogni usanza, inteso come una critica indiretta al capo del nostro governo. Come a significare che a Washington non ci si fida più di un leader alleato che appare, fra l’altro, troppo sensibile alle ragioni di Putin.
Insomma, a prescindere da ciò che fa e che dice, e da ciò che gli italiani pensano di lui, abbiamo un problema Berlusconi che ci penalizza nelle relazioni internazionali. Nasconderlo sotto il tappeto non è una soluzione. Allo stesso tempo, questo è per definizione un tema sul quale noi italiani siamo sovrani. O almeno dovremmo esserlo. Il capo del governo italiano lo decidono gli italiani. Anche se non tutti gli italiani ne sembrano convinti.
Purtroppo per noi non è solo una questione personale, ma di sistema. I presidenti del Consiglio cambiano, il problema della credibilità dell’Italia rimane. Almeno finché non avremo finalmente tracciato la linea che dovrebbe portarci, in tempi non storici, alla formazione di un soggetto politico europeo, unico abilitato a conferire su un piede di parità con l’eventuale G2.
Nell’attesa, invece di difendere lo strapuntino in un G8 ormai defunto, e di cui a L’Aquila abbiamo brillantemente celebrato le esequie, potremmo farci promotori di un nuovo organismo di consultazione, per quanto possibile anche di decisione, consono ai tempi. Il G14 ventilato da Berlusconi e da altri si avvicina a questa idea. In ogni caso, è nostro interesse farci promotori di un nuovo formato con nuovi attori e nuovi contenuti, piuttosto che aspettare scelte altrui. Anche perché se non porteremo un nostro contributo di idee, gli altri si sentiranno in diritto di spiegarci che, spiacenti, ma non si vede proprio a che serva l’Italia quando si discute delle cose che contano.
Autore: Lucio Caracciolo
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