
Si combatte nella zona sotto responsabilità italiana in Afghanistan. I taliban cercano di prendere il controllo del ring, la strada circolare che collega le principali città. Troppi grandi attori internazionali giocano la partita afghana. Il Cuneo degli Stan.
Siamo a giugno, il pieno della stagione di guerra ed è chiaro che, in attesa di un picco di schieramenti statunitensi, tutti gli attori del micidiale circo afghano cercano di prendere le posizioni migliori in vista delle elezioni d’agosto.
Il fatto che le truppe italiane siano maggiormente nel mirino non può sorprendere: da un lato la pressione dei gruppi ribelli si estende, dall’altro non bastano le reti di buone relazioni per difendere la neutralità e la collaborazione dei capi tradizionali se vengono minacciati da bande armate e forse dall’altro ancora si sente da Roma una maggiore urgenza a dimostrare il peso del contributo italiano per tacitare sterili polemiche tra chi è impegnato nella caccia aggressiva ai gruppi d’insorti e chi invece tutela la solidità delle retrovie.
Da poco è stato costituito un raggruppamento politico-militare all’interno di ISAF che mette insieme le forze effettivamente impegnate a Sud (Australia, Canada, Danimarca, Estonia, Paesi Bassi, Romania, Regno Unito e Stati Uniti) e che si coordina a parte e prima delle riunioni ISAF. È facile capire come questi paesi non sempre possano comprendere che non esiste una prima linea d’attacco, se le retrovie non sono efficacemente protette dalle infiltrazioni.
Ciò comunque, se esprime efficacemente la frustrazione di questi otto paesi, non può bastare a risolvere il problema di fondo: dal 2005 al 2009 le aree ad alto rischio sono cresciute del 30-50% annuo. Si tratta di un deterioramento costante e sinora senza appello.
Il risultato è che, secondo le stime dell’ICOS (International Council On Security and development), il 72% del territorio vede una pesante presenza talebana, il 21% con una notevole presenza e solo il 7% con una presenza leggera. Forse è utile aggiungere che la zona italiana tra Herat e Farah è fortemente infiltrata dalle forze nemiche.
Dal punto di vista della logistica la via di Peshawar, quella più importante, è sotto continuo attacco e tutta la parte meridionale della Ring Road (l’unica grande strada che collega circolarmente tutto il paese) da Farah a Kandahar a Kabul è resa costantemente insicura dall’attività delle guerriglie.
La prossima mossa delle opposizioni armate sarà di risalire costantemente la Ring Road da Farah ad Herat in modo da strangolare un altro importante nodo logistico. In questo modo l’insieme delle operazioni ISAF/OEF, non importa quanto riunite di fatto sotto un unico cappello, resterebbe appeso alle due linee logistiche che portano a Mazar-e-Sharif ed a Kunduz, creando una situazione peggiore di quella vissuta dal contingente sovietico più di un quinto di secolo fa.
In effetti, guardando la logistica del paese, ci sia accorge sia della reale portata della scommessa degli USA e degli alleati, sia della complicata partita che si sta giocando e che vede troppi cuochi intorno al calderone afghano.
Ci sono voluti 31 anni dall’invasione sovietica dell’Afghanistan (1978) per capire che il teatro di guerra afghano era inestricabilmente collegato a quello pakistano (2009, creazione del concetto statunitense di AFPAK), ma gli usuali strabismi della visione strategica standardizzata ancora non riescono ad inquadrare la regione in modo funzionalmente organico nemmeno per il più limitato obbiettivo di uscire onorevolmente dalla guerra contro i talebani.
Nemmeno le difficoltà logistiche sperimentate lungo la linea Peshawar-Khyber Pass e dunque la necessità di trovare linee alternative in Asia Centrale, hanno indotto a gettare uno sguardo meno convenzionale: si parla di Northern Route e di basi aeree alternative a
quella di Manas (Kyrgyzstan), da cui gli USA sono stati estromessi nel marzo 2009, ma non dei cinque stati che sono parte del problema e della soluzione.

Il Cuneo degli stan si può individuare all’interno del triangolo fra Ust-Kamenogorsk (Oskemen, Kazakhstan), Ural’sk (Oral, Kazakhstan) e Karachi (Pakistan). Esso include da Nord a Sud: Kazakhstan, Uzbekistan, Turkmenistan, Kyrgyzstan, Tajikistan, Afghanistan e Pakistan. Stretto geograficamente fra quattro stati egemoni, più o meno fortemente colpiti dalla crisi globale (Iran, Russia, Cina, India), il Cuneo degli stan non è necessariamente un’area cardinale degl’interessi geostrategici del mondo, ma da otto anni gli è stata conferita una poco invidiabile importanza per quattro contingenze politiche:
1. La nascita del movimento neojihadista a lungo raggio di al-Qa’eda, dopo l’estinzione del movimento jihadista antisovietico con la fine dell’invasione dell’Afghanistan (1978-1989);
2. La competizione nel vicino estero russo centrasiatico tra USA, Cina, India, Iran sull’onda della guerra al terrorismo;
3. La fame di risorse energetiche da parte di vecchi (Europa) e nuovi consumatori (India, Cina);
4. L’esplosione della produzione afghana d’oppio. Invece bisogna concepire questa profonda striscia triangolare come la fragile linea di faglia che subisce la pressione tettonica non solo delle quattro grandi potenze continentali, ma anche degli Stati Uniti come agente di pressione esterna che carica la sua pressione dal mare.
Non è un caso che quel che accomuni il Cuneo degli stan siano forme di governo autoritario (o di democrazia recente e fragile), patrimoniale, corrotto, basato fortemente sull’organizzazione di famiglie ed etnie estese, con profonde infiltrazioni mafiose che dominano i traffici illegali da Karachi a Celyabinsk e Samara, le porte d’accesso ai ricchi mercati al di qua degli Urali.
La minaccia per l’intero cuneo, e dunque anche per il successo eventuale della coalizione a mandato ONU in Afghanistan, è data molto dalla crisi economica globale e dagli effetti che ha su economie e società simultaneamente ingessate e fragili, e meno dal jihadismo regionale o globale.
Con ogni probabilità la crisi dura per tutto il 2010 e forse nel 2012 vi sarà un ciclo di ripresa e quindi i prossimi tre anni sono quelli che decideranno per tutti e sette i paesi del Cuneo degli stan se sopravviveranno o si disintegreranno a differenti velocità. L’Afghanistan sarà il paese più sostenuto, Turkmenistan ed Kazakhstan possono contare sulle risorse energetiche ed il resto è francamente un’incognita.
Intorno, oltre agli Stati Uniti, vi sono gl’interessi di Iran, India, Pakistan, Cina e Russia. Quest’ultima vuole, insieme alla Cina, completare l’espulsione degli USA dall’Asia Centrale e negoziare il libero passaggio dei rifornimenti nel suo vicino estero. La Cina, meno sul nucleare e più sull’incerto futuro del proprio cliente pakistano, è in relativa competizione con l’India, che ha aumentato considerevolmente la propria presenza a Kabul. Ovviamente la presenza indiana crea tensioni nell’élite pakistana, già impegnata nella difficile soluzione del Kashmir, e tutt’altro che intenzionata a perdere quel che considerava un proprio retroterra (strategicamente inutile, ma politicamente conveniente).
Ultimo viene l’Iran, impegnato in un gioco a tutto campo con gli USA e che ha tutto l’interesse ad espandere il più possibile la sua influenza in Afghanistan in modo da negoziare al meglio una pace con il Grande Satana, rinunziando il meno possibile alle proprie carte.
In una situazione del genere Kabul rischia di fare la fine della carcassa di capra contesa da una frotta di cavalieri, un tipico sport locale. Sinora gli Stati Uniti punteranno sul nuovo schieramento di mezzi e uomini per assestare un serio colpo alla guerriglia ed ai terroristi. È l’ora dei cacciatori d’uomini, dei rastrellamenti, degli Jagdkommando e di un serio programma d’“eliminazioni mirate”.
Poi, se le cose dovessero volgere al peggio, Obama sarà pronto a giocare sporco pur di chiudere la causa. Suonerà l’ora dei diplomatici balcanizzanti, il momento di riconoscere l’autodeterminazione dei pashtoon e di liberare Afghanistan e Pakistan del peso di un’altra bieca divisione coloniale europea. Three candles and a prayer..
Autore: Alessandro Politi
Fonte: www.limesonline.it
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