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sabato 8 maggio 2010

Euro: una moneta senza Stato

The Wirepullers: La crisi greca e l'imminente crisi porto-spagnola mettono a nudo le pecche di una moneta probabilmente nata troppo in fretta, senza tenere conto delle molteplici diverstà delle genti e delle culture dei paesi che ne hanno preso parte. La crisi greca rappresenta il primo vero banco di prova per l'Unione monetaria. Che l'assenza di una unione politica tra le nazioni non cominci a farsi sentire? Di seguito il punto di Lucio Caracciolo.









fonte: Limesonline
autore: Lucio Caracciolo


Senza un vero Stato alle spalle non esiste vera moneta. Il difetto genetico della moneta unica. La scommessa sul procedere dall’economia alla moneta e alla politica. Ancora prevalgono gli stereotipi dei paesi virtuosi e di quelli inaffidabili.
L’Europa dei van Rompuy, dei Barroso e delle baronesse Ashton non può permettersi l’euro. Alla prima seria crisi, il difetto genetico della “moneta unica” – ossia della principale fra le dodici divise circolanti nei paesi europei - è venuto a galla, con conseguenze potenzialmente devastanti: senza un vero Stato alle spalle non esiste vera moneta. Il bluff può funzionare nelle giornate di sole, ma quando si scatena la tempesta non sappiamo più come proteggerci. La lezione di Atene, per chi vuole intenderla, è netta: o adeguiamo l’Europa all’euro, o rinunciamo all’euro. Storia e cronaca dell’Unione Europea lasciano intuire che sceglieremo una terza via. Rinviare, rinviare, rinviare. Fra un tampone finanziario e l’altro. Fino a che il morbo non si sarà talmente diffuso e radicato in tutti i paesi dell’Eurozona e probabilmente oltre, da renderlo incurabile. A quel punto la politica non potrà nulla, salvo preoccuparsi dell’ordine pubblico. Perché è evidente che il collasso del nostro sistema monetario, in un contesto recessivo e con una disoccupazione a due cifre, produrrebbe rivolte sociali e crisi politico-istituzionali di dimensioni imprevedibili. L’europeismo classico di stampo federalista aveva scommesso sull’euro come pietra di paragone della sua strategia esoterica: procedere dall’economia alla moneta alla politica, in una paradossale riabilitazione delle teorie marxiste. Come se dal carbone e dall’acciaio, passando al mercato e poi alla moneta, potesse transustanziarsi lo Stato federale europeo. Senza che gli europei se ne accorgessero, perché in tal caso l’avrebbero impedito. Di qui la refrattarietà ad affrontare qualsiasi pubblico dibattito su fini e confini della costruzione europea, illustrata come un eterno work in progress. Ma un “progresso” senza mèta è un’avventura. Che con il tempo ha perso il suo lato fascinoso, eccitante, per dar luogo a una diffusa euronoia. Al limite dell’eurofobia. Clima ideale per i nemici dell’Europa e per chi alla democrazia liberale e alla società aperta antepone il richiamo delle piccole patrie, delle tecnocrazie autoritarie e dei razzismi. Quest’ultimo aspetto è centrale nella vicenda dell’euro. Dalla gestazione della moneta europea nel contesto del dopo-Muro alla crisi in corso, il fattore etnico è stato e resta fondamentale. Le attuali recriminazioni dei paesi “virtuosi” (le virgolette sono d’obbligo) contro il lassismo (senza virgolette) del “Club Med” o dei “Pigs” ricorrevano, negli stessi esatti termini, durante gli anni Novanta, quando si trattava di stabilire chi fosse abilitato e chi no a entrare nella famiglia della “moneta unica”. Al di là dei vaghi criteri di Maastricht, interpretati in base alle congiunture e ai rapporti di forza, la classificazione era e resta antropologico-culturale. Sicché ai greci, ma anche ai portoghesi, agli spagnoli e agli italiani non si può dare fiducia nel lungo periodo, perché vocazionalmente tendenti a sforare o mascherare i bilanci. Mentre i tedeschi o gli olandesi sono per nascita rigorosi, puntuali, precisi. Poco importa che i fatti dimostrino spesso il contrario: i pregiudizi restano. E influenzano i nostri decisori politici quanto i mercati. Un giorno usciremo da questa crisi economica e monetaria. Speriamo in condizioni non troppo disastrose. Ciò che sembra destinato a sopravviverle è questo razzismo soft, che radicalizza le tesi schumpeteriane sul nesso fra “carattere nazionale” e politica monetaria. Se l’Europa non si fa, se l’euro traballa è perché nulla di condiviso e di duraturo si può costruire fra chi si considera geneticamente diverso.

Online ohne Allah


Thewirepullers: Il dissenso religioso in occidente è facile, radicato e diciamolo anche un pò glamour, ma provare a dichiararsi ateo nel mondo islamico è un impresa per temerari. Così è nato il primo network di atei arabi el7ad.com che, in forma anonima (la pelle è cara a tutti), discute quotidianamente, oltre che dell'esistenza di dio, della politica dell'economia e della cultura mettendo da parte i dogmi religiosi.
Ovviamente il sito è sotto perenne attacco informatico da parte degli integralisti. Ecco l'articolo originale del settmanale tedesco Die zeit.

Das internationale Netzwerk arabischer Atheisten hat regen Zulauf. Sie streiten mit Muslimen und wehren sich gegen den elektronischen Dschihad. Sie wollen einen Sieg der Toleranz

Ein letzter, feiner Kitzel von Tabubruch mag dabei sein, wenn deutsche Zeitungen den Papst als fehlbar bezeichnen. Doch für Christen ist es keine Grenzüberschreitung mehr, das religiöse Leben zu kritisieren. Ganz anders in der islamischen Welt. Hier reichen die fünf Worte »Ich glaube nicht an Gott«: Wer sie laut ausspricht, wird womöglich von der eigenen Familie verstoßen, verliert seinen Job, ja gerät in Lebensgefahr. Gegen das Bekenntnis zum Atheismus ist selbst ein Coming-out vergleichsweise harmlos – obwohl die islamischen Länder nicht eben für ihre Schwulenfreundlichkeit bekannt sind. Es ist das schärfste aller Tabus, und genau darauf zielt eine Gruppe junger Nerds mit dem »Forum arabischer Atheisten«, einer Webseite, die trotz großer Risiken für Meinungsfreiheit kämpft. Die Freidenker, die sich hier verbünden, müssen erst noch eine eigene Geistestradition begründen, das macht schon der Name ihrer arabischsprachigen Seite deutlich: »el7ad.com« ist eine lautliche Umschrift für »ilhad«, das Wort für »Atheismus« – in dem immer auch die religiöse Konnotation »Irrglaube, Ketzerei« mitschwingt.

Trotz der Gefahr, als »Ketzer« aus der Gesellschaft zu fallen, suchen die anonymen Diskussionsteilnehmer ein Gespräch jenseits der Dogmen. Sie sind das exakte Gegenbild zum Typus des glaubensfanatischen Morgenländers, der hierzulande durch die Debatten geistert. Statt arabischer Terroristen also arabische Atheisten, deren Waffe das freie Wort ist. Sie streiten offen über Politik, Wirtschaft, Kunst und entlarven die Rede von der »unüberwindlichen Kluft zwischen Orient und Okzident« als tumbe Kulturkampf-Phrase. Sie sind ein internationaler Debattierklub mit mittlerweile 15.000 eingetragenen Mitgliedern weltweit, die keinen Glauben mehr, aber eschatologische Fragen haben und oft ganz ähnlich über die letzten Dinge räsonieren wie die Philosophen des Abendlandes.

»Was ist der Sinn des Lebens?«, schreibt ein User. »Religionen gaukeln uns doch etwas vor. Das menschliche Leben ist, für sich genommen, leer, wenn wir es nicht selbst mit Sinn füllen.« Darauf ergeht die existenzialistische Antwort: »Das Leben bleibt so oder so sinnlos.« Soll heißen, wir müssen uns mit der Absurdität unserer Existenz abfinden. Camus und Sartre erleben hier, unterm Druck religiöser Denkverbote, ihre arabische Wiedergeburt.

Hinter dem Projekt steckt ein länderübergreifendes Team, das sich im Internet kennengelernt hat und die Seite seit fünf Jahren gemeinsam betreibt. Der Initiator heißt Mohamed, ist Ägypter und lebt heute in Berlin. Außerdem gehören noch ein Mann aus Jordanien sowie zwei weitere Betreiber aus arabischen Ländern dazu, die nicht genannt werden sollen. Denn Atheismus gilt als Apostasie, als Abfall vom Glauben, worauf im islamischen Recht die Todesstrafe steht. Zwar haben sich die meisten islamischen Länder von dieser koranbezogenen Rechtsprechung distanziert. Todesurteile sind nur in Ländern wie Saudi-Arabien oder Iran denkbar, und verhängt werden sie selbst dort nur in Ausnahmefällen. Trotzdem schweben Apostaten auch in jenen Staaten, die als verwestlicht gelten, in ernster Gefahr. Für Ägypten etwa erlangte der Fall des Universitätsdozenten Nasr Hamid Abu Zaid traurige Popularität. Abu Zaid trat für eine literaturkritische Auslegung des Korans ein, was ihm als Ketzerei ausgelegt wurde, da der Koran als Gottes unverfälschtes Wort gilt. Per Gerichtsverfahren wurde Abu Zaid 1995 von seiner Frau zwangsgeschieden und erhält noch heute, im holländischen Exil, Morddrohungen.

Wer angesichts dieser Lage ein Netzwerk für Gotteszweifler betreibt, ist nicht nur mutig, sondern Avantgarde. Allerdings herrscht auf el7ad.com keine Kampfesstimmung, sondern ein starker Friedenswille. Der immense Druck, öffentlich nicht vom Islam abzuweichen, soll nicht in einseitige Schelte gegen Gläubige münden. »Wir sind eine Gruppe von Atheisten, die nach Meinungsfreiheit streben«, heißt es in einer Präambel der Seite, »viele glauben fälschlicherweise, wir seien Feinde der Religion. Dabei wollen wir niemandem unsere Ansicht, dass Gott nicht existiert, aufzwingen. Wir glauben an Frieden.« Solche Spielregeln haben die Betreiber gleich zu Anfang formuliert. Denn das Forum ebenso wie sein Gründer will mit der muslimischen Welt in Kontakt bleiben. Mohamed sitzt in seiner Zweizimmerwohnung in Berlin, in einem düsteren Wohnraum, voll gestapelt mit Festplatten. Der Informatiker hat auch Theaterwissenschaften und BWL studiert; seine Überzeugung, dass es keine Seele und keinen Gott gibt, sondern nur Bewegungen von Molekülen, hat sich über Jahre aufgebaut. Als Jugendlicher war es selbst noch gläubig, bis heute betört ihn die sprachliche Schönheit des Korans, den er, ganz unironisch, sein »Lieblingsbuch« nennt. Er kann Muslime verstehen, weil er selbst einer war, doch Vorschriften, was er zu glauben habe, lässt er sich nicht mehr machen.

»Meine Familie ahnt, dass ich nicht an Gott glaube. Aber wir schweigen«

Einen echten Bekennerakt als Gotteszweifler, außerhalb des Internets, wagte er vor Jahren gegenüber seinem Onkel, einem belesenen und weltoffenen Muslim. Mohamed erklärte damals, er halte den Propheten, dessen Namen er trägt, für einen »großen Sozialreformer«, allerdings habe der als Politiker »etwas von einem Machiavelli«. Dieser wohlbedachte Satz kippte sofort das Gespräch. Der Onkel brach den Kontakt für Jahre ab.

Mohameds Courage, eine revolutionäre Internetseite zu gründen, fällt nicht zufällig mit dem neuen Selbstbewusstsein vieler arabischer Jugendlicher zusammen. Sie sind beflügelt von der Chance grenzenloser Kommunikation und lieben die virtuelle Welt, in der Blogs als realpolitische Waffe dienen. Das Beispiel Kairo zeigt, an wie vielen Stellen die Stimmung brodelt: Dort wird nicht nur eine permanente Onlineradiosendung zum Tabuthema »Scheidung auf Initiative der Frau« produziert; dort bloggen Anhänger der Minderheitsreligion der Bahai über Diskriminierung im Alltag; dort sorgten Handyvideos von Folterszenen für die spektakuläre Entlassung eines Polizisten – und das im Polizeistaat Ägypten! Regelmäßig zieht die Jugend durch Kairos Straßen, Banner schwenkend, Sprechchöre schmetternd. Ein Aufbruch ist spürbar. Und doch müssen selbst unter Bloggerkollegen die Atheisten inkognito bleiben.

Das gilt auch für M., eine Frau, die im Forum schreibt und aus einer liberalen Familie stammt. Ihre Mutter trägt kein Kopftuch, eine Schwester ist Filmschauspielerin. »Meine Familie ahnt vielleicht, dass ich nicht an Gott glaube. Aber wir würden niemals offen darüber reden.«. Für arabische Atheisten, die in der Hölle der Sprachlosigkeit schmoren, ist das Internet ein wunderbarer Ausweg. »Die Frage, ob Gott existiert, interessiert mich zwar nicht, doch sie bestimmt mein Leben«, schreibt eine wütende Userin, die offenbar aus einem sehr restriktiven Land, vielleicht Saudi-Arabien, stammt. »Trotz Globalisierung darf ich nicht ohne Zustimmung meines Mannes reisen. Frauen bleiben hinter einer Mauer aus Angst gefangen, weil ihnen der Glaube an sich selbst fehlt.« Die Verzweiflung der Schreiberin wird zunächst von einem Mann barsch gekontert, der behauptet, es zähle nicht, was der Mensch wolle, sondern was im Koran stehe. Dann empfiehlt er ein umstrittene Sure zum Umgang mit widerspenstigen Gattinnen: »Ermahnt sie, meidet sie im Ehebett und schlagt sie!« Doch statt Beifall kommt nun heftiger Widerspruch eines anderen männlichen Users, der sich bei der Frau bedankt: »Ich bin wirklich betroffen. Ihr Text erinnert mich daran, dass es harte soziale Gründe gibt, Atheist zu sein.« Im Handumdrehen bricht dieser Wortwechsel mehrere Tabus. Frauen, die mancherorts nicht einmal allein Auto fahren dürfen, stellen selbstbewusste Forderungen; Männer können deren emanzipatorischen Gedanken ohne Gesichtsverlust zustimmen; Ungläubige und Muslime begegnen sich nicht nur in abgekarteten Gerichtsverfahren, sondern im freien Austausch der Argumente.

Die Souveränität der Atheisten erweist sich gerade dann, wenn sie auf Muslime reagieren. Zu deren Lieblingsthemen gehören die »Wunder des Korans«, die angeblich moderne wissenschaftliche Erkenntnisse vorwegnahmen, so auch der Vers: »Sehen die Ungläubigen nicht, dass Himmel und Erde eine feste Masse bildeten und wir sie dann spalteten?« Dazu postet ein Muslim triumphierend, der Koran beschreibe den »Big Bang«, die heute gültige Theorie zur Entstehung des Universums. In ähnlicher Manier werden weitere Suren auf Roboter und Flugzeuge bezogen. Die Atheisten reagieren mit Humor und spitzer Koran-Exegese, um die Orthodoxen mit deren eigenen Waffen zu schlagen.

»Ich verachte Ihre Meinung, aber sie muss gesagt werden dürfen«

Trotzdem bilanzieren die Erfinder der Website zaghaft: »Man darf die Freiheitserwartungen nicht überziehen. Europa hatte schließlich mehr als zweihundert Jahre Zeit.« Gemeint ist natürlich die europäische Aufklärung, von der es oft gönnerisch heißt, die islamische Welt müsse sie noch »nachholen«. Vergessen wird dabei gern die Mu’tazila, jene Theologie, die zwischen dem 8. bis 12. Jahrhundert einen »logischen Islam« suchte und den Koran rational auslegte. An diese Tradition wollen die Internetaktivisten anknüpfen, allerdings auf eigene Weise. Denn die Mu’tazila war eine elitäre Bewegung, die zeitweise sogar per Inquisition den Strenggläubigen nachstellte. Arabische Atheisten des 21. Jahrhunderts aber bevorzugen den Dialog. Der jordanische Mitbegründer von el7ad.com beruft sich am liebsten auf Voltaire: »Ich verachte Ihre Meinung, aber ich gäbe mein Leben dafür, dass Sie sie sagen dürfen.« Ein Sieg der Toleranz ist, wovon die Computer-Gottlosen träumen.

Dies spüren denn auch die Aktivisten des »elektronischen Dschihad«. Täglich versuchen islamistische Nerds, die Seite zu sabotieren. Sie simulieren Massenzugriffe, als würden Hunderttausende User gleichzeitig auf die Seite drängen, das soll den Server schwächen, damit die Dschihadisten eindringen können – um Debattentexte zu löschen oder gar Autoren zu identifizieren. Bislang prallten die Attacken ab, denn einer der Betreiber ist hauptberuflich für IT-Sicherheit zuständig. Erwischt hat es jedoch Mohamed, als er eine »Atheisten-Zeitung« online stellte, die er nur an die Forumsseite anlehnte. Er nutzte nicht den sicheren Server, über den das Forum läuft, und plötzlich standen sein Klarname und seine Berliner Adresse im Internet. Seine Gegner outeten ihn als Atheisten und warnten über Facebook: »Wir wissen, was du tust, komm auf den rechten Weg zurück!«

Mohamed liest das als Morddrohung. Doch einschüchtern lässt er sich nicht. Er schreibt in anderen Foren als bisher und vermeidet provozierende Pointen, denn sein Ziel ist nicht, die eigene Meinung effektvoll zu propagieren – er möchte etwas bewegen. »Wenn ich schreibe: Ich glaube nicht an Allah, dann liest ja kein Muslim weiter«, sagt er. Lieber kritisiert er al-Qaida und den wahhabitischen Fundamentalismus. Neulich hat er einen Aushang gesehen, ganz altmodisch auf Papier, dass sich am Prenzlauer Berg regelmäßig eine Atheistengruppe treffe. Zu der will er nun Kontakt aufnehmen. Sie mag christlich geprägt sein, aber Mohamed ist immer offen für neue Wege.

fonti: internazionale.it
zeit.de






lunedì 3 maggio 2010

Il Nemico? Lo portiamo da casa


Wirepullers: Talebani, attentati,difficoltà logistiche, dove dobbiamo cercare le cause dei problemi americani in Iraq?
Forse non così lontano, forse il vero nemico le truppe U.S.A. se lo sono portato da casa.
Ecco come il New York Times vede il problema.

Fonte: www.nytimes.com
Autore: Helene Cooper

WASHINGTON — Gen. Stanley A. McChrystal, the leader of American and NATO forces in Afghanistan, was shown a PowerPoint slide in Kabul last summer that was meant to portray the complexity of American military strategy, but looked more like a bowl of spaghetti.

“When we understand that slide, we’ll have won the war,” General McChrystal dryly remarked, one of his advisers recalled, as the room erupted in laughter.

The slide has since bounced around the Internet as an example of a military tool that has spun out of control. Like an insurgency, PowerPoint has crept into the daily lives of military commanders and reached the level of near obsession. The amount of time expended on PowerPoint, the Microsoft presentation program of computer-generated charts, graphs and bullet points, has made it a running joke in the Pentagon and in Iraq and Afghanistan.

“PowerPoint makes us stupid,” Gen. James N. Mattis of the Marine Corps, the Joint Forces commander, said this month at a military conference in North Carolina. (He spoke without PowerPoint.) Brig. Gen. H. R. McMaster, who banned PowerPoint presentations when he led the successful effort to secure the northern Iraqi city of Tal Afar in 2005, followed up at the same conference by likening PowerPoint to an internal threat.

“It’s dangerous because it can create the illusion of understanding and the illusion of control,” General McMaster said in a telephone interview afterward. “Some problems in the world are not bullet-izable.”

In General McMaster’s view, PowerPoint’s worst offense is not a chart like the spaghetti graphic, which was first uncovered by NBC’s Richard Engel, but rigid lists of bullet points (in, say, a presentation on a conflict’s causes) that take no account of interconnected political, economic and ethnic forces. “If you divorce war from all of that, it becomes a targeting exercise,” General McMaster said.

Commanders say that behind all the PowerPoint jokes are serious concerns that the program stifles discussion, critical thinking and thoughtful decision-making. Not least, it ties up junior officers — referred to as PowerPoint Rangers — in the daily preparation of slides, be it for a Joint Staff meeting in Washington or for a platoon leader’s pre-mission combat briefing in a remote pocket of Afghanistan.

Last year when a military Web site, Company Command, asked an Army platoon leader in Iraq, Lt. Sam Nuxoll, how he spent most of his time, he responded, “Making PowerPoint slides.” When pressed, he said he was serious.

“I have to make a storyboard complete with digital pictures, diagrams and text summaries on just about anything that happens,” Lieutenant Nuxoll told the Web site. “Conduct a key leader engagement? Make a storyboard. Award a microgrant? Make a storyboard.”

Despite such tales, “death by PowerPoint,” the phrase used to described the numbing sensation that accompanies a 30-slide briefing, seems here to stay. The program, which first went on sale in 1987 and was acquired by Microsoft soon afterward, is deeply embedded in a military culture that has come to rely on PowerPoint’s hierarchical ordering of a confused world.

“There’s a lot of PowerPoint backlash, but I don’t see it going away anytime soon,” said Capt. Crispin Burke, an Army operations officer at Fort Drum, N.Y., who under the name Starbuck wrote an essay about PowerPoint on the Web site Small Wars Journal that cited Lieutenant Nuxoll’s comment.

In a daytime telephone conversation, he estimated that he spent an hour each day making PowerPoint slides. In an initial e-mail message responding to the request for an interview, he wrote, “I would be free tonight, but unfortunately, I work kind of late (sadly enough, making PPT slides).”

Defense Secretary Robert M. Gates reviews printed-out PowerPoint slides at his morning staff meeting, although he insists on getting them the night before so he can read ahead and cut back the briefing time.

Gen. David H. Petraeus, who oversees the wars in Iraq and Afghanistan and says that sitting through some PowerPoint briefings is “just agony,” nonetheless likes the program for the display of maps and statistics showing trends. He has also conducted more than a few PowerPoint presentations himself.

General McChrystal gets two PowerPoint briefings in Kabul per day, plus three more during the week. General Mattis, despite his dim view of the program, said a third of his briefings are by PowerPoint.

Richard C. Holbrooke, the Obama administration’s special representative for Afghanistan and Pakistan, was given PowerPoint briefings during a trip to Afghanistan last summer at each of three stops — Kandahar, Mazar-i-Sharif and Bagram Air Base. At a fourth stop, Herat, the Italian forces there not only provided Mr. Holbrooke with a PowerPoint briefing, but accompanied it with swelling orchestral music.

President Obama was shown PowerPoint slides, mostly maps and charts, in the White House Situation Room during the Afghan strategy review last fall.

Commanders say that the slides impart less information than a five-page paper can hold, and that they relieve the briefer of the need to polish writing to convey an analytic, persuasive point. Imagine lawyers presenting arguments before the Supreme Court in slides instead of legal briefs.

Captain Burke’s essay in the Small Wars Journal also cited a widely read attack on PowerPoint in Armed Forces Journal last summer by Thomas X. Hammes, a retired Marine colonel, whose title, “Dumb-Dumb Bullets,” underscored criticism of fuzzy bullet points; “accelerate the introduction of new weapons,” for instance, does not actually say who should do so.

No one is suggesting that PowerPoint is to blame for mistakes in the current wars, but the program did become notorious during the prelude to the invasion of Iraq. As recounted in the book “Fiasco” by Thomas E. Ricks (Penguin Press, 2006), Lt. Gen. David D. McKiernan, who led the allied ground forces in the 2003 invasion of Iraq, grew frustrated when he could not get Gen. Tommy R. Franks, the commander at the time of American forces in the Persian Gulf region, to issue orders that stated explicitly how he wanted the invasion conducted, and why. Instead, General Franks just passed on to General McKiernan the vague PowerPoint slides that he had already shown to Donald H. Rumsfeld, the defense secretary at the time.

Senior officers say the program does come in handy when the goal is not imparting information, as in briefings for reporters.

The news media sessions often last 25 minutes, with 5 minutes left at the end for questions from anyone still awake. Those types of PowerPoint presentations, Dr. Hammes said, are known as “hypnotizing chickens.”


martedì 27 aprile 2010

KIRGHIZISTAN, CAMBIO AL VERTICE




Putin compra dovunque energia apparentemente per rivenderla, ma in realtà per farne uso strategico. I poteri globali e regionali continuano a gestire le aree di propria influenza istituzionalizzando e legittimando l’interventismo


È più che evidente che dietro il cambio di vertice in Kirghizistan ci sia la lunga mano del Cremlino. Lo dimostrano il fido di 150 milioni di dollari elargito subito da Putin a favore dei nuovi governanti Kirghizi i quali parlano già delle basi militari Usa “ non giustificate ”. Il presidente Medvedev senza preoccuparsi nemmeno formalmente della sovranità nazionale del Kirghizistan invita il presidente destituito K. Bakiev a lasciare prima possibile il paese per evitare un altro Afghanistan. Ciò mentre la Bielorussia, stretta alleata di Mosca, offre asilo al presidente destituito che ovviamente rifiuta. Secondo le fonti russe – come secondo un copione - la famiglia Bakiev già durante il cambio di vertice si era trasferita negli Usa.

Solo cinque anni separano la rivolta in Kirghizistan dalla rivoluzione colorata che in linea con le rivoluzioni cromatiche in Ucraina e Georgia aveva portato al potere K.Bakiev il quale, protetto dall’establishment Usa, non era riuscito a costruire nemmeno una democrazia formale. Le rivoluzioni colorate erano sostenute da un occidente che sfruttando il crollo del sistema ex sovietico e la conseguente crisi, non si era presentato con i valori di una reale democrazia e libertà ma con il desiderio di una maggiore penetrazione, con un occhio alle risorse per allargare i mercati ed abbattere le barriere nazionali e doganali, ottenere le basi per combattere il dilagante talebanismo.

In Kirghizistan anche questa volta come la volta precedente è cambiato tutto al vertice per non cambiare nulla negli equilibri sociali. Il potere nelle repubbliche ex sovietiche rimane saldamente in mano alle vecchie gerarchie degli ex partiti comunisti, trasformate nella nuova borghesia con forti legami con gli eredi dell’ex Kgb e il Cremlino. I nuovi poteri centroasiatici emersi dalle ceneri dell’Urss basandosi sulle strutture di sicurezza - espressione di istanze di gruppo, clan e l’uomo forte (khan) -, ripristinando la tradizione storica applicano i metodi spietati del khan più forte.

Sono nate le parvenze delle istituzioni democratiche come parlamento, partiti politici, sindacati, etc... Ma lo spirito del potere è rimasto saldamente in mano agli ambienti tradizionali delle famiglie e di gruppi che, agendo nel quadro di vecchie e nuove corruzioni, gestiscono l’economia legale e vari traffici illeciti. In questo quadro le masse di diseredati privi di diritti democratici si rifugiano nei movimenti di stampo confessionale. Nel quadro di questo confessionalismo vari taleban in linea o organici con al-Qaida, chiedendo obbedienza organica, promettono la salvezza almeno per l’aldilà.

Nessuno si sarebbe accorto del cambio al vertice in questo piccolo e povero paese se non fosse per le risorse quasi vergini dell’Asia Centrale, per la posizione geografica nel cuore del continente eurasiatico, per essere alle porte della Russia e suo ex-feudo, nelle vicinanze della Cina e dell’Iran e dell’Afghanistan e per le basi militari costruite o in via di costruzione per gli Usa o per la Russia.

Basi come Manas che servono per coprire le operazioni degli Usa e della Nato in Afghanistan e al Cremlino per il riemergere e lanciarsi alla riconquista - almeno - dei territori e degli spazi dell’ex Unione Sovietica. Infatti l’elemento più importante della vicenda kirghiza consiste nell’ulteriore passo che la nuova Russia compie nel suo riemergere come potenza extranazionale. Una tendenza apparsa già con l'intervento nel Caucaso in sostegno agli ossettini e contro la Georgia dell’ingenuo avventuriero Sakashvili .

Medvedev, il presidente indicato da Putin ed eletto dal popolo, afferma senza mezzi termini che il caso del Kirghizistan potrebbe ripetersi anche altrove. Questa affermazione è la dimostrazione della ferrea volontà russa di riprendere il controllo delle aree extranazionali dove è possibile. La Russia in crisi, che aveva accettato l’arrivo e la presenza degli Usa e degli europei (in ordine sparso) fa capire di rivolere i territori perduti. La Russia che nell’ambito dell’ex Urss composto da popoli uguali e fratelli come il grande fratello, come la più uguale tra gli uguali, controllava tutto e tutti ed è intenzionata a riavere tutto il perduto.

Il riemergere della Russia nelle intenzioni e nelle politiche e soprattutto nella volontà di Putin erano ben evidenti. Putin dopo esser stato nominato dal barcollante Yeltsin, sfruttando il terrorismo ceceno di origine indipendentista e di dubbio operato (colpisce puntuale quando Putin è in difficoltà) si è impossessato del potere in tutti i sensi, ricostruendo la burocrazia di stato risuscitando l’anima di Ivan il Terribile. Putin dopo aver eliminato le resistenze della società civile (Anna Politevsakaya è solo uno dei nomi) ha eliminato tutti gli oppositori da Dubai a Londra con pallottole e i veleni di propria competenza .

Putin con l’esclusione dei gerarchi è diventato il gerarca unico e il maggior azionista di Gazprom (uguale alla Russia) e nell’ambito di un potere addomesticato come zar incontrastato è divenuto l’origine di ogni legge. Allora Putin come architetto di quel sistema in cui l’anima è la burocrazia di stato, nelle elezioni secondo ricetta ha fatto eleggere Medvedev presidente. Cosi Putin, lo zar dagli occhi di ghiaccio, trasformando l’energia in materia strategica e rinnovando puntualmente anche l'arsenale bellico, ha istituzionalizzato il neozarismo, e mostra l’ansia di metterlo in atto con l’espansionismo verso il Caucaso e Asia Centrale per avere il controllo delle materie prime soprattutto quelle energetiche.

La Russia di Putin - Medvedev comincia a fare accordi e costruire oleodotti. “ North Stream “ sotto il Baltico (via Gerard Schroder) per il Nord Europa che bypassa eurorientali come la Polonia che seguono più la politica di Washington che quella di Brusselles, e “South Stream” per il sud Europa. La Russia fa sapere ai governanti del turkmanistan (30 per cento delle risorse mondiali del gas) di essere disposta a comprare il gas turkmano al di sopra dei prezzi di mercato. Quando i turkmeni si mostrano disponibili per vendere una percentuale i russi fanno sapere che vogliono comprare il totale.

Potrebbero i turkmeni chiudere gli occhi sulle vicende della vicina Kirghizestan e non vendere?

Putin compra dovunque dall’Algeria al Turkmenistan energia apparentemente per rivenderla, ma in realtà per farne uso strategico. Lo fa capire con la solita bolletta Ucraina non pagata per chiudere i rubinetti dell’energia all’Europa negli inverni gelidi. La Russia con la Grazprom entra nel mercato iraniano dell’energia e devia l’energia iraniana verso l’area indocinese, per tenerla lontana dal Nabucco e mercati europei. Putin aveva già affermato durante la propria presidenza alla Duma: Il rublo deve diventare un mezzo più diffuso per le transazioni internazionali ha detto Putin. A questo punto, abbiamo bisogno di aprire una borsa in Russia per il commercio di petrolio, gas ed altri beni da pagare in rubli.

Ciò vuol dire escludere il dollaro da circuiti di questa borsa. Anche Tehran e Caracas intendono convergere sul progetto della borsa petrolifera ed escludere il dollaro. Sommando questa esclusione con il fatto che la metà del debito Usa è finanziato dalla Cina e altre banche centrali asiatiche, ciò vorrebbe dire il crollo del sistema basato sul dollaro (oramai senza copertura aurifera) come moneta con la quale si compra energia .

La Russia come pieno membro della Sco (Shanghai Cooperation Organization) diviene più attiva nel mondo islamico attraverso la Conferenza Islamica, mentre trasforma un suo annoso problema del passato come l’Afghanistan in un problema degli Usa e della Nato e dopo la campagna irachena dell’amministrazione Bush avvenuta nel quadro delle logiche Neo-Con, con una politica di comprensione verso Tehran si affaccia anche sul Golfo Persico, un fatto storicamente senza precedenti. Di qui non solo l'impopolarità (che alimenta ulteriormente traffici illeciti e danneggia i ceti meno abbienti) delle sanzioni ma anche la pericolosità di far cadere l’Iran in mano russo-cinese.

Mentre Putin basandosi sulla burocrazia di stato e sulle varie strutture di sicurezza pianifica le linee strategiche della nuova Russia, il Presidente Medvedev dopo aver ammonito e punito l’ avventuriero Shasakshvili arriva a consigliare Bakiev di consegnare l’ex feudo a gente di sua fiducia .

I poteri globali e regionali continuano a gestire le aree di propria influenza istituzionalizzando e legittimando l’interventismo, dimenticando che qualcuno potrebbe pensare a legittimare anche il terrorismo. I poteri gestiscono tutto secondo le logiche geopolitiche e spesso dimenticano che esistono milioni di esseri umani che hanno bisogno di sicurezza, di leggi e rispettivi diritti. La mancanza di sicurezza è una epidemia che facilmente potrebbe trasformarsi in pandemia.

Da Limes



La crisi greca a ritmo di tango?


Immagine a corredo dell'articolo - La  crisi greca a ritmo di tango? - miaeconomia.leonardo.it

Chissa' se un giorno parlando dei guai della finanza pubblica della Grecia il caso non verra' accostato a quello di inizio millennio visto in Argentina, che porto' a una devastante crisi e perfino alla bancarotta del paese sudamericano. Gia', perche' gli ingredienti sembrano esserci tutti per fare un parallelo tra le due storie, fatte salve le particolarita' dei due casi.

Comunque, anche allora, alla fine degli Anni 90, divento' chiaro che Buenos Aires stava andando dritto in un baratro, ci furono gli aiuti massicci miliardari da parte del Fondo monetario e dalla Banca Mondiale (in dollari) per salvare il paese. Il tutto, condito con pesanti misure di austerita' volute dal governo in parallelo a misure fiscali piu' pesanti. Mosse che non evitarono quel default che molti piccoli investitori stanno pagando ancora oggi.

Le condizioni greche non sembrano molto lontane da quella storia. Anche Atene sta per ricevere massicci aiuti e sta lanciando misure drastiche sul fronte dei conti pubblici (piu' tasse, meno spese) che hanno fatto scatenare la reazione dei sindacati (come accadde in Argentina).

Un'altra similitudine: entrambi i paesi avevano adottato una moneta molto forte (l'Argentina era legata al dollaro con un cambio 1 a 1. La Grecia ha l’euro) senza avere nessun controllo sulla politica monetaria della valuta di riferimento. Perche' anche Atene non controlla di certo le decisioni della Bce sull'euro, ad esempio sui tassi, sul capitale circolante, eventuali svalutazioni e cosi' via.

Il tutto combinato con una gestione dei conti pubblici quanto meno allegra rispetto ad altri paesi piu' virtuosi, porta a un quadro molto simile a quello sudamericano, con l'aggravante che la moneta di riferimento si e' pesantemente sopravvalutata con problemi di competitivita' nel commercio internazionale.

Anche gli investimenti esteri, dopo un primo afflusso piu' deciso, hanno invertito la rotta proprio in concomitanza del rafforzamento euro in combinazione con conti pubblici sempre traballanti.

A proposito, anche l'Italia non sembra molto lontana per caratteristiche - euro, deficit, svalutazione mancata, fisco traballante, investimenti esteri, export - alle due storie.

E non c'e' niente da fare, perche' una volta il governo greco avrebbe potuto tentare di controbilanciare la situazione praticando una massiccia svalutazione della dracma (come si e' fatto tantissimo in Italia con la lira) per riportare forza al commercio estero, ora il governo di Atene non puo' piu' fare una cosa del genere. Almeno finche' resta nell'euro.

fonte: http://miaeconomia.leonardo.it/